A partire da noi

Organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. Diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale.

Questa affermazione, contenuta nell’appello lanciato dalle compagne kurde affinché la Giornata Internazionale delle Donne 2015 sia dedicata alla rivoluzione delle donne nel Rojava e alla resistenza delle Unità di Difesa delle Donne YPJ è immediatamente risuonata in tutte noi.

Per storie personali e percorsi, il nostro approccio alla lotta di liberazione delle donne kurde rifiuta completamente l’estetica mediatizzata della ‘bella guerrigliera’, che è finalizzata soltanto a sminuire il reale portato del percorso di liberazione che le compagne kurde portano in ogni ambito della vita individuale e comunitaria.

E, al contempo, rifiutiamo la logica noi/voi, che è logica di guerra e non di reciprocità. Nel relazionarci con le compagne kurde in lotta, infatti, vogliamo partire dalle tensioni comuni e dai comuni desideri e pratiche: separatismo, autodifesa, autodeterminazione e orizzontalità.

Partire da noi, dunque, ma senza restare a noi. Perché il partire da sé si fa strumento politico di lotta soltanto se ci fa acquisire consapevolezza e forza per reagire collettivamente ai dispositivi di oppressione del sistema globale di dominio patriarcale e neoliberista.

Con questo blog vogliamo promuovere la costruzione di un 8 marzo fuori da ogni rituale e di un percorso che non sia soltanto per ma con le donne kurde.

Per questo nelle pagine del blog abbiamo deciso di raccogliere materiali documentari sparsi in rete per renderli più facilmente accessibili e, al contempo, dare spazio ad approfondimenti che spieghino perché la lotta delle compagne kurde risuona in noi e, dunque, per combattere il suprematismo che, a volte, abbiamo trovato anche negli ambiti femministi.

Un tempo la si sarebbe chiamata ‘sorellanza nelle lotte’. Una sorellanza che non è uno slogan ma una pratica da costruire giorno dopo giorno, nella relazione. Per abbattere tutte le forme – violente o dissimulate – di vittimizzazione e/o di criminalizzazione che il sistema dominante utilizza per renderci sottomesse o, ancor peggio, complici.


Seguono alcune riflessioni sul perchè Kobane risuona in noi. Per condividere anche le vostre considerazioni lasciate un commento qui.


Mi sono avvicinata alla questione curda quasi due anni fa e i  primi due aspetti che mi hanno colpita di questa lotta e di questo popolo sono stati la nuova forma organizzativa che stanno sperimentando per autogovernarsi, che qui da noi viene tradotta «confederalismo democratico» e la partecipazione attiva e rivoluzionaria delle donne curde, ma non solo, in tutte le parti del Kurdistan.

Più leggevo gli scritti di Ocalan in merito e tutto quello che stavano producendo teoricamente e praticamente le donne curde e più mi rendevo conto di quanto in tutti questi anni di politica non ero mai riuscita, come anarchica, a dare delle risposte esaustive a chi mi chiedesse cosa questa ideologia proponesse effettivamente nella gestione pratica  della società, perchè lì lo stavano mettendo in pratica, qui invece lo stiamo ancora sognando e in piccole occasioni realizzando.
Davo, quindi,  risposte teoriche, ideologiche, ma di pratico e vissuto riuscivo solo a riportare esperienze significative , ma parziali o limitate e chi mi stava davanti mi dava della romantica o nei peggiori dei casi della settaria.
L’esperienza della libera repubblica della Maddalena in val Susa mi ha dato una mano, così come tanti momenti di autogestione durante questa lotta, ma ancora non basta.

E lì invece questo progetto sperimentale, in cui le decisioni per l’intera società le prendono le assemblee popolari, dove alcuni dei pilastri fondativi sono l’orizzontalità e l’assunzione di responsabilità da parte di tutte e tutti  ele donne decidono per sè in una società con radici feudali, dove chiaramente non è tutto risolto e c’è  ancora molto da fare. E poi ciliegina sulla torta si parla di una rivoluzione delle donne.

Di solito questo aspetto, nei movimenti e nei percorsi di lotta, viene relegato a dopo la liberazione oppure  formalmente accettato tra i punti da tenere in considerazione per un mondo più libero bla bla bla….

Ho deciso, quindi, di andare un pò a fondo su come e cosa stavano facendo queste donne e l’ aspetto che mi ha colpita di più è stata la concretezza delle loro proposte e soprattutto la loro volontà e capacità di metterle in pratica.
Eh sì perchè credo che il primo passo che abbiano fatto sia stato chiedersi cosa volevano come donne e di cosa avevano bisogno, ancor prima di definirsi, per poi cominciare a realizzarlo.
Dalla casa delle donne, ai consultori, alle cooperative, alla gestione della società, all’autodifesa del proprio popolo e di loro stesse, partendo dal dato di fatto che ognuna ha la sua storia, la sua formazione politica e a volte religiosa, le sue tradizioni etc…

Insomma mi è piaciuto subito questo fare,  supportato da tanto studio e da una formazione culturale e politica impressionante e in continuo rinnovarsi grazie al confronto quasi giornaliero. Non è un caso che nel Rojava siano nate le accademie in sostituzione alle università e che tutte e tutti possano iscriversi gratuitamente e che  ci siano delle persone che stanno riscrivendo i libri di storia, qui al limite li si revisiona.
Tra l’altro tutte le donne curde che mi è capitato di incontrare qui in Europa sono preparatissime e parte della loro vita la dedicano allo studio. Mi è sembrato strano, perchè i Italia, ma non solo, la scuola è così noiosa e chiusa che studiare è più un obbligo o un lavoro che un progetto di vita.

Mi hanno risuonato anche le parole delle donne, soprattutto le combattenti, quando hanno spiegato le loro difficoltà nel percorso di liberazione di loro stesse, mettendo in cima la lotta alle proprie paure di non farcela da sole.
La paura è un sentimento forte, che ti fa sopravvivere, ma  e se non viene gestita e canalizzata bene, ci può distruggere o immobilizzare, quindi vedere come queste donne in guerra sorridano e siano felici, mi ha fatto apprezzare il loro coraggio, non tanto perchè sono al fronte e rischiano la vita, ma per quanto stanno mettendo in discussione di loro stesse e di come siano riuscite a farlo senza creare rotture distruttive all’interno della loro società.
Oggi le madri e i padri delle combattenti curde sono quasi tutti orgogliose di loro e non le condannano per essersi sottratte al loro destino di mogli e madri.
Hanno posto in maniera costruttiva le loro esigenze e volontà e unite le hanno realizzate. Loro stesse dicono che i loro mariti, fratelli, padri non avrebbero mai ceduto loro la libertà, rinunciando ai propri privilegi, perciò hanno dovuto metterli davanti al fatto compiuto, anche perchè non volevano piccole concessioni, ma autodeterminarsi. E’ la differenza c’è e si vede!

Anche sul separatismo sono partite da qualcosa di reale e l’hanno fatto.  le sentiamo quindi dire che  soamo figlie di cinquemila anni di oppressione fisica, culturale, politica etc.. e che ora per ritrovarsi e parlare con il loro linguaggio e il loro corpo hanno bisogno di riguardarsi negli occhi senza l’ingerenza della cultura maschile e rifare tutto da capo. Io mi ci ritrovo tantissimo e sperimentandolo da anni posso dire che funziona.
Del resto in una comunità che si sta basando sulla convivenza tra popoli con lingue  e tradizioni diverse, anche il separatismo non può che essere considerato una pratica includente, che punta alla valorizzazione delle diversità che hanno bisogno di emergere, in un’ ottica di superamento di quelle categorie sociali come quelle dei generi.

Insomma le donne curde mi hanno dato come si suol dire una botta di vita e mi hanno ricordato quello che da anni penso e condivido, ossia che se vogliamo possiamo ottenere più di quello che ci immaginiamo e che praticandolo poco non lo vediamo o ce lo dimentichiamo.

S. – 30/5/2015

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Cosa risuona in me della lotta delle donne curde?

Per rispondere a questa domanda, per cercare cosa veramente mi fa sentire vicina alla lotta delle donne curde, paradossalmente ho dovuto mettere da parte le immagini che ultimamente sono rimbalzate un po’ ovunque; le immagini di donne combattenti, in armi, in guerra.

Mi rendo conto che in questo momento per il movimento curdo è cruciale la battaglia che si sta combattendo sul fronte vero e proprio, contro lo stato islamico ma anche contro quei regimi che da sempre ostacolano l’autodeterminazione del popolo curdo.

Mi è però difficile immedesimarmi in quell’immagine di fiera donna guerrigliera, che osservo con infinita ammirazione, ma da lontano. Io mi sento una persona “comune”, non riesco ad immaginarmi come una di quelle combattenti. E allora cos’è che risuona in me quando sento parlare della lotta delle donne curde? Probabilmente è proprio quello che sta alla base del loro impegno: la volontà di vivere libere, di gestirsi autonomamente, di fare le proprie scelte, anche sbagliando magari, ma senza essere condizionate da interessi che non sono i nostri.

Quello che veramente mi colpisce di quanto sta accadendo nel Rojava è che le donne curde stanno riuscendo a fare una rivoluzione politica e sociale, reale, profonda, e questo significa che hanno portato la rivoluzione nel quotidiano, nella vita di tutte.
Per come la vedo io, una vera rivoluzione non può essere fatta solo da un eroico manipolo di persone che imbraccia un fucile, ma si costruisce anche con un lavoro costante, determinato, lungo, di profonda messa in discussione dei ruoli, delle relazioni, in poche parole della propria vita. Ed è un processo che per funzionare deve coinvolgere tutte: chi si sente più forte, chi meno, le donne più spavalde e quelle più riservate, le giovani e le anziane, le madri e le figlie, le donne sposate e quelle che no.

Quello che mi attira, che voglio approfondire e che sento mi può accomunare a loro è proprio il desiderio di portare la rivoluzione nella quotidianità di tutte. Non mi piace l’idea che l’impegno politico sia un qualcosa riservato solo ad alcune elette, o che sia un hobby, qualcosa da fare nel tempo libero per tenersi impegnati e stare nel giusto giro di amicizie. Per me, la politica è un qualcosa che trasforma me e le mie relazioni sempre, ogni giorno, in ogni contesto: sul lavoro, nell’amore, nel crescere i figli, nella relazione con i miei vicini di casa. Non qualcosa oltre, al di fuori di esse. E’ la realizzazione di questa trasformazione che mi interessa indagare nella rivoluzione del Rojava.

Sono piena di domande per loro, sono assetata, curiosa di scoprire come le donne vivono la loro quotidianità nel Rojava, al di là della guerra, seguendo quella che le donne curde chiamano la propria ideologia, utilizzando una parola che da noi è desueta, e che richiama connotazioni negative, ma che invece per loro ha la potenza di un faro, di una direzione cui volgersi per costruire il mondo in cui scegliere di vivere.

Sono le stesse donne curde a sottolineare come la resistenza armata delle donne del Rojava non sarebbe possibile senza questa profonda trasformazione sociale, senza la presa di coscienza della condizione femminile nella società patriarcale e il suo superamento nella pratica.

A questo proposito, chiudo citando l’intervento della presidente di Uiki Onlus alla recente presentazione del libro di Sakiné a Roma: “Le donne curde, accanto agli uomini non dimentichiamolo, sono scese nel campo di battaglia e si sono misurate contro le forze dello Stato Islamico pronte a uccidere o morire. Il mondo le ha acclamate ma se non avessero avuto coscienza di sé, del sistema sociale che stanno costruendo e, d’altra parte, conoscenza profonda delle motivazioni che muovono gli invasori, non avrebbero mai imbracciato un’arma. Ci tengo a sottolineare nuovamente il punto essenziale da cogliere: è l’atto del decidere in sé. Battersi è stato un passo obbligato per le donne di Kobane.”

Viola – 20/02/2015


Le donne guerrigliere mi hanno sempre affascinata per la forza e la determinazione che esprimono. Nel caso delle compagne kurde c’è, per me, qualcosa in più che mi risuona. Sia per la forza della relazione femminista tra di loro, che è evidente nelle immagini e nei video, sia perché, nel caso del Rojava in particolare, le immagino profondamente consapevoli del fatto che stiano sparando contro degli stupratori e trafficanti di donne rese schiave. E’ un di più che mi risuona profondamente. Gli uomini nelle guerre e nelle imprese di conquista hanno sempre usato anche lo stupro come arma, ma di solito non vengono ammazzati DALLE DONNE per questa ragione.

Aurora – 19/02/2015