Il PKK non è un’organizzazione terroristica! Lo diciamo anche noi, unendoci alle decine di migliaia di persone che ieri hanno partecipato al funerale di Tahir Elçi, vigliaccamente ucciso in un “attacco pianificato” mentre teneva una conferenza stampa con altri avvocati, a Diyarbakir, per mostrare e denunciare i danni ad uno storico minareto a quattro colonne, pesantemente danneggiato dalle forze governative durante il coprifuoco.
Come spiega il KNK in una sua dichiarazione: “Tahir Elçi era nel mirino del governo dell’AKP e dei poteri dello stato da molto tempo per la sua lotta per i diritti umani, la libertà e la pace. È diventato palesemente un obiettivo dopo aver dichiarato qualche settimana fa, durante un programma televisivo, che il PKK non è un’organizzazione terroristica. Prima è stato arrestato, poi portato in tribunale e condannato a sette anni e mezzo di carcere. Oggi è stato assassinato da coloro i quali hanno ritenuto che questo fosse insufficiente!”.
Una video-analisi della dinamica dell’omicidio di Tahir dice molto di questa vicenda, e vi invitiamo caldamente a guardarla.
Che la sua vita forsse in pericolo, Tahir lo sapeva bene e lo aveva dichiarato in un’intervista.
Parlando al suo funerale, la moglie Türkan ha detto: “Le vittime degli omicidi extragiudiziali ora ti accoglieranno. Non c’è alcun bisogno di presentarti: tutte le vittime e il mondo sanno bene chi sei. Ti stiamo guardando da qui. Le vittime di questi omicidi, a cui dedicato la tua vita, diranno ‘Ci hai difesi, ma chi ti difenderà?’. E lui risponderà: ‘Ho compagni, compagne, amici, amiche e familiari che stanno al mio fianco. La storia mi capirà'”.
Ahmet Elçi, fratello di Tahir, ha dichiarato: “I pubblici ministeri, i giudici e i media di stato hanno additato mio fratello come bersaglio. Mio fratello non è il nostro primo martire, né sarà l’ultimo. I vigliacchi crudeli e fascisti dovrebbero sapere molto bene che non saranno mai in grado di intimidire il popolo curdo, che resisterà fino alla fine. Tahir non è morto. Lui non morirà mai. Era una persona libera. Lo Stato può mettere metterci ammanettarci le mani, ma non potrà mai farlo con le nostre menti e le nostre idee. Noi siamo liberi e resisteremo insieme con la nostra gente e i nostri amici. Il nostro popolo non si arrenderà mai alle forze di occupazione. Tahir era un fratello di tutti i socialisti, gli armeni, gli assiri e i curdi. Come intellettuale curdo è stato assassinato dallo stato, che ha ripetutamente commesso omicidi simili nel corso la sua storia. Eppure, il nostro popolo non avrà mai paura e noi vinceremo”.
Proprio il giorno precedente, il PKK festeggiava il 37mo anniversario della sua fondazione, ricordata anche con le parole di Sakine Cansiz e di altre/i combattenti.
In quell’occasione è stata anche rilanciata in rete la campagna per la sua cancellazione dalla lista dei gruppi terroristici.
https://www.youtube.com/watch?v=rVVSbLIq4Ss&feature=youtu.be
Sulla percezione del PKK tra la popolazione kurda e, all’opposto, da parte dei governi europei, abbiamo tradotto da Telesur un articolo di Dilar Dirik che riteniamo molto interessante.
Criminalizzare il nostro popolo. L’impatto sociale della messa al bando del PKK
di Dilar Dirik (20 novembre 2015)
Il fatto che gli stati occidentali abbiano messo nelle liste dei gruppi terroristici il PKK, criminalizza la gente comune kurda. Tuttavia, questa loro ipocrisia ha anche creato una comunità consapevole, mobilitata, attiva.
L’anno scorso, quando i principali media occidentali erano confusi sui “terroristi del PKK” che combattevano i “terroristi del gruppo Stato islamico”, ciò evocava un sorriso stanco nei volti dei kurdi comuni che, a parte l’oppressione a casa, sono stigmatizzati e criminalizzati in tutta Europa.
Le denominazioni del terrore spesso demonizzano un lato di un conflitto, mentre immunizzano l’altro. Ciò vale soprattutto per il conflitto Turchia-PKK, con il secondo più grande esercito della Nato, da un lato, e un movimento armato di liberazione nazionale, dall’altro. Ma, in questo caso, la designazione di terrorista criminalizza anche un’intera comunità di gente comune, negandone i diritti fondamentali.
Il mettere gruppi e stati dentro e fuori dalle liste in base alla situazione politica del momento, come è stato con l’Iraq di Saddam Hussein, mostra come le liste nere siano politiche, non morali, a prescindere dalla loro pretese. In realtà, queste liste rafforzano la violenza sponsorizzata dallo stato rinforzando il monopolio dello stato sull’uso della forza, ignorando la legittimità della resistenza e senza fare distinzione morale alcuna tra i gruppi come ISIS e i movimenti che reagiscono alle ingiustizie.
Il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) è stato designato dagli Stati Uniti come gruppo terroristico nel 1997, e dalla UE nel 2002. Mentre gli affiliati al PKK commettevano atti violenti in Germania negli anni ’90, non era la violenza la ragione per giustificarne la messa al bando, ma piuttosto il PKK “che interrompe interessi della NATO in Medio Oriente”. Ancora oggi i funzionari europei affermano che fino a quando la posizione della Turchia sul PKK rimarrà quella, si asterranno dalla revoca del bando. Ogni volta che i governi sembrano riconsiderarla, è a causa di tensioni con la Turchia. Mentre il bando placa la Turchia, esso è anche una carta falsa per segnalare che il bando sul loro nemico potrebbe essere rimosso se la Turchia si comporta male.
Non c’è bisogno di essere simpatizzanti del PKK per vedere il bando come un anacronismo, in un’epoca in cui il PKK non solo ha spostato la sua prospettiva politica, ha annunciato diversi cessate-il-fuoco unilaterali e ha avviato un processo di pace lungo di due anni, ma è anche una garanzia di vita per molte comunità etniche e religiose nel Medio Oriente in quanto più forte nemico del gruppo Stato Islamico. I vecchi argomenti non reggono.
Ma, a parte gli argomenti legali e politici, che implicazioni sociali hanno le liste nere?
In Europa, il popolo kurdo costituisce una delle comunità più organizzate e politiche. Il concetto di autonomia democratica nella diaspora è implementato sotto forma di assemblee popolari e delle donne. Questo potenziale democratico in sé viene visto come una minaccia.
I governi europei mirano a delegittimare le organizzazioni percepite come terroriste prendendo di mira e “interrompendo” le basi di appoggio attraverso la criminalizzazione, nel tentativo di depoliticizzare le comunità e rompere i loro legami con la politica nei paesi di provenienza.
Ma i governi occidentali sono spesso complici con l’oppressione che costringe queste comunità ad emigrare.
Gli stessi stati che etichettano il PKK come terrorista, sono i principali fornitori di armi nella guerra della Turchia contro i kurdi. Le informazioni fornite dai droni americani hanno ucciso 34 civili kurdi nel 2011, i carri armati tedeschi nelle mani dell’esercito turco hanno distrutto 5mila villaggi kurdi negli anni ’90.
Ironia della sorte, pur sostenendo la guerra della Turchia contro i kurdi, gli stati europei hanno anche accettato migliaia di kurdi profughi a causa delle persecuzioni politiche degli anni ’90. La natura esplicitamente geopolitica di queste liste rinforza l’ingiustizia; quindi, per la comunità kurda, questa lista del terrore non è uno standard di moralità o di legittimità, poiché i kurdi muoiono attivamente per le sue implicazioni. E questo è comunque molestia ed abuso nei confronti di una comunità di milioni di persone.
In Europa, le persone non hanno bisogno di commettere veramente dei reati per essere arrestate come aderenti al PKK. In Germania, dove si persegue la criminalizzazione più aggressiva per la lunga tradizione di collaborazione politica ed economica tedesco-turca, i criteri di adesione possono essere la mera simpatia percepita, a cui si risponde con intercettazioni telefoniche, violenza psicologica e fisica nelle manifestazioni, irruzioni nelle case e chiusura delle istituzioni sociali e politiche. La partecipazione ad eventi sociali e politici, che è normalmente un diritto democratico tutelato da accordi internazionali, è un criterio di appartenenza sufficiente. Uffici legalmente registrati, organizzazioni studentesche e centri comunitari sono sotto costante sospetto.
Le persone pagano senza aver visto prove contro di loro, a causa della natura segreta delle procedure antiterrorismo. Nel caso di Adem Uzun, un politico kurdo e attivista di primo piano, un motivo per arrestarlo era stato attivamente costruito dalle autorità francesi.
I/le giovani kurdi/e in Germania, Francia e Regno Unito, senza status di residenza o di cittadinanza, sono presi di mira per la loro vulnerabilità e costretti a collaborare con le autorità come spie delle proprie comunità. Se si rifiutano, vengono minacciati di espulsione. Al giorno d’oggi, i profughi provenienti dal Kurdistan che sono scampati al gruppo Stato Islamico sono minacciati e vessati da parte delle polizie europee per la partecipazione ad attività politiche.
Spesso in tutta Europa vengono coordinate repressioni simultanee che coincidono con gli sviluppi in Kurdistan. Poco dopo l’annuncio dei negoziati di pace tra il PKK e lo stato turco nel 2013, giri di vite contro attivisti kurdi hanno avuto luogo in particolare in Spagna, Germania e Francia.
La visita di Angela Merkel al presidente turco Erdogan prima delle elezioni anticipate di novembre ha espresso sostegno per il suo regime autoritario-fascista e ha fatto intendere che l’Europa avrebbe chiuso gli occhi di fronte ai massacri turchi se Erdogan avesse tenuto i rifugiati al di fuori dell’UE.
Mentre le città kurde assediate, come Silvan, fronteggiano i massacri da parte dell’esercito turco, la Germania fa incursioni nelle case dei kurdi e arresta gli attivisti.
Nello stesso momento, dopo aver trascorso la maggior parte dell’anno in carcere, una donna kurda di 18 anni, Shilan Özcelik, viene processata in un tribunale britannico con l’accusa di terrorismo perché si asserisce che volesse unirsi alla lotta contro il gruppo Stato Islamico. Gli attivisti ritengono che il Regno Unito, che ha criminalizzato i kurdi per più di un decennio, voglia creare un precedente con il caso di Shilan, soprattutto dopo che il funerale di Konstandinos Erik Scurfield – volontario britannico morto combattendo il gruppo terroristico islamico al fianco dei kurdi in Siria – è stato accolto da folle che lo inneggiavano come un eroe.
Il governo britannico è in tacita alleanza con le forze kurde al fronte, ma criminalizza la medesima lotta in casa propria.
Le statistiche sui simpatizzanti del PKK in Europa sono basate solo su congetture selvagge da parte delle autorità, perché la reciproca diffidenza tra la gente comune kurda e le autorità statali europee rende impossibile esprimere apertamente le opinioni politiche.
Il Regno Unito, la Francia, la Germania, la Danimarca hanno reso evidente la loro posizione chiudendo diversi canali televisivi kurdi e facendo pagare pesanti multe per il loro presunto sostegno al PKK.
Nel caso di ROJ TV, secondo documenti che sono trapelati, l’allora primo ministro della Danimarca, Anders Fogh Rasmussen, avrebbe messo al bando il canale per guadagnare il favore della Turchia per il suo posto come segretario generale della Nato nel 2009.
Quelli che si vantano per la libertà di stampa e la democrazia, che messaggio mandano alle centinaia di migliaia di kurdi della diaspora che vedono questi canali come loro unica voce e connessione con il loro paese?
Che nessuno sia immune contro la costante angoscia kafkiana di criminalizzazione, lo esemplifica il caso di Nicole Gohlke, membro del partito di sinistra del parlamento tedesco. Nel novembre del 2014, durante l’assedio del gruppo Stato islamico a Kobane, lei è intervenuta durante una manifestazione a Monaco di Baviera. Ha sollevato la bandiera del PKK per 15 secondi, dicendo: “Esorto il governo tedesco a non criminalizzare più simboli come questi perché, mentre parliamo, sotto questa bandiera viene portata avanti una lotta per la libertà, i diritti umani e la democrazia. Togliere il bando al PKK!”.
È stata messa in carcere, costretta a pagare una multa e le è stata tolta l’immunità parlamentare. Questo è accaduto in un contesto politico in cui il PKK veniva applaudito a livello internazionale, dopo aver salvato decine di migliaia di yezidi bloccati sul Monte Sinjar.
Chiaramente, la designazione di terrorista è un velo dietro al quale l’Europa nasconde la propria perfidia. È uno strumento di controllo per mettere a tacere il dissenso e annientare la coscienza politica. Ma il PKK è legittimo agli occhi di milioni di kurdi; non è possibile fare alcuna distinzione tra “organizzazione” e “base sociale”.
Chiunque abbia partecipato ad una manifestazione kurda avrà sentito lo slogan “Il PKK è il popolo – e il popolo è qui”.
Kobane, bastione di resistenza contro il gruppo stato islamico, è stata liberata con lo slogan “Viva Abdullah Öcalan”.
Oggi, il movimento di liberazione kurdo intorno al PKK, in particolare con il suo pionieristico paradigma della liberazione delle donne, attrae non solo i kurdi, ma tutti i popoli oppressi della regione.
In Rojava e nel Kurdistan del nord, l’idea di autonomia democratica basata sulla coesistenza di tutte le entità etniche sta prendendo forma concreta.
Quando l’anno scorso Kobane era sotto assedio, tutti hanno visto la capacità di mobilitazione della comunità kurda; in poche ore sono state organizzate contemporaneamente in tutta Europa centinaia di manifestazioni spontanee, scioperi della fame, occupazioni e manifestazioni.
Allo stesso tempo, la politica a due facce propria dell’Europa è stata evidente quando il PKK ha salvato intere comunità in Medio Oriente, mentre la Turchia, membro della NATO, sosteneva i gruppi jihadisti, volendo vedere i kurdi cadere prima del gruppo Stato Islamico, diventando così un importante fattore causale della crisi dei rifugiati, per la quale ora l’UE lecca il culo alla Turchia.
Indipendentemente dalle loro pretese moralistiche, le misure restrittive messe in atto dai governi-mercanti d’armi – che sostengono gli stati oppressivi come la Turchia nella speranza di assimilare soprattutto i/le giovani kurdi in acritiche parti pacificate del sistema, isolandoli e privandoli delle loro opinioni, dei diritti democratici dei media, e del senso di comunità – ha ottenuto l’opposto: una comunità consapevole dal punto di vista politico, sempre più autonoma e critica, che ha bruciato i suoi ponti con il sistema e desidera dedicarsi pienamente alla sua lotta legittima.