È risaputo che lo stato turco abbia una lunga tradizione di umiliazioni sessuali, violenze e stupri contro le donne, dall’epoca del genocidio della minoranza armena.
Un paio di anni fa un articolo di Meral Duzgun intitolato Turchia: una storia di violenze sessuali aveva analizzato l’uso dello stupro come strumento di tortura nei confronti delle prigioniere politiche curde.
Quella stessa feroce tradizione la vediamo messa in atto anche oggi. Un’adolescente arrestata nella provincia di Van ha raccontato di essere stata minacciata, sotto tortura, di venire consegnata nelle mani di ISIS se non avesse parlato. Ad Elazığ sono state arrestate dieci donne che protestavano contro il divieto di manifestare contro la guerra e contro la politiche belliche sul corpo delle donne.
A Varto, dove è stato straziato ed umiliato il corpo della guerrigliera Ekin Van, le donne si sono ritrovate da varie città per renderle onore e ricoprire con un telo bianco il luogo in cui il suo cadavere oltraggiato è stato abbandonato; nel resto della Turchia migliaia di donne hanno manifestato contro la guerra di Erdogan, ribadendo che “la nudità di Ekin ancora una volta ha rivelato la politica patriarcale e dello stupro dello stato turco”.
In risposta all’appello alla mobilitazione contro la guerra proveniente dall’Assemblea delle donne libere, azioni per ricordare Ekin Van si sono svolte anche fuori dal parlamento svedese e a Colonia – rompendo il silenzio europeo – non solo da parte dei media, ma anche del femminismo – su questo terribile episodio e sui legami fra AKP e ISIS.
La resistenza contro le violenze dello stato turco non ha età: a Cizre, nel Kurdistan del nord, le giovani hanno costituito delle proprie unità di autodifesa, e così hanno fatto anche le donne assire; a 66 anni, Kifah Khalil Efendi (nell’immagine qui accanto) sostiene attivamente la rivoluzione in Rojava partecipando ai servizi di checkpoint e dice che “Con l’inizio della rivoluzione, le donne hanno iniziato a fare grandi passi in avanti. Hanno aperto la porta ad una nuova vita”; nel nord del Kurdistan e nelle zone in cui la guerriglia combatte contro l’esercito turco, le donne stanno facendo da scudi umani (1 e 2), e dove viene dichiarato l’autogoverno rivendicano e praticano l’autodifesa attiva per “poter camminare in pace nelle nostre strade”.
E mentre le prigioniere politiche stanno portando avanti dal 15 agosto, coi loro compagni, uno sciopero della fame a tempo indeterminato contro il genocidio politico della popolazione kurda, le YPG/YPJ hanno liberato tre donne yezide e i loro 10 figli e figlie dalle mani di ISIS. Una di queste donne ha raccontato di aver tagliato i capelli della propria figlie e di aver fatto credere che fosse “matta”, come strategia di difesa perché non venissero separate dalle bande di fondamentalisti.
Per quanto riguarda le donne yezide, una relazione pubblicata dalla dott. Leyla Ferman sulla loro situazione nei campi profughi, sull’urgenza di affrontare i profondissimi traumi subiti e sul modo in cui vengono gestite le difficoltà poste dalla popolazione maschile, mette in luce come “esempi dal Kurdistan meridionale e dal Rojava (Kurdistan occidentale) mostrano che quelle donne che sono state liberate o che sono riuscite a liberarsi dalla prigionia di IS in parte si tolgono la vita o vanno a combattere IS”.