Rullano i tamburi di guerra. “L’Isis è alle porte dell’Italia”, ci dicono, e ci rendono visibile la loro ‘barbarie’, per farci dimenticare – o sostenere – la barbarie delle guerre dell’Occidente neoliberista e dei corpi della popolazione civile dilaniati dai suoi bombardamenti nelle guerre ‘umanitarie’ e ‘infinite’.
Sia chiaro: per noi i militari dello ‘stato islamico’ sono fascisti, schiavisti e stupratori e la loro visione delle donne ci richiama quella vigente nel ventennio mussoliniano, successivamente riproposta dai nostalgici fascisti e dagli integralisti cattolici nostrani.
Non diciamo questo come ‘necessaria premessa’ per poi poter dire quello che pensiamo, ma perché sia chiaro che non vogliamo farci intrappolare nel dispositivo della iper-rappresentazione della brutalità altrui che mira ad oscurare le brutalità che le donne vivono quotidianamente anche in Italia. Una quotidianità fatta di sfruttamento, umiliazioni e violenze contro le donne, femminicidi.
Abbiamo detto ‘NO!’ alle guerre in nostro nome o in nome delle donne afghane.
Siamo scese in piazza insieme a decine di migliaia di altre donne per dire ‘NO!’ al pacchetto sicurezza e al razzismo sdoganato in nome della difesa delle donne.
Abbiamo detto ‘NO!’ ai decreti che miravano a militarizzare i territori in cui viviamo – non ultimo il ‘decreto femminicidio’.
E quello stesso ‘NO!’ vogliamo ribadirlo oggi di fronte ad uno stato che pretenderebbe l’ennesima delega – con annesso consenso alla guerra – in nome della nostra ‘tutela’.
Ma, d’altra parte, non vogliamo nemmeno che la nostra forza si esaurisca in quel ‘NO!’, incastrandoci in un immaginario capace di esprimere solo ciò che non vogliamo. Perché sappiamo anche ciò che vogliamo: vogliamo esprimere la nostra forza e la nostra potenza, vogliamo liberare, autogestire e autodeterminare in toto le nostre vite di donne.
Anche per questo le esperienze delle donne in Rojava, la loro determinazione e la gioia nel costruire una comunità che sia altra dai modelli dominanti e patriarcali risuona in ciascuna di noi.
Vogliamo decolonizzare i nostri immaginari – le compagne kurde le hanno definite battaglie contro le nostre stesse dipendenze – per delineare e praticare, come donne e come compagne, la nostra idea di ‘comunità altra’.
Per questo ci sembra essenziale che la rottura con la logica ingabbiante – e infantilizzante – dell’aut-aut si declini in tutte le forme di cui saremo capaci e di cui le compagne kurde ci suggeriscono esempi efficaci.
Invitiamo le compagne, donne e lesbiche, ad enunciare le ragioni per le quali la lotta delle donne kurde in Rojava e la loro resistenza a Kobane risuonano in ciascuna di noi. Un passaggio necessario per dar voce ai nostri desideri e per rinnovare gli strumenti delle nostre lotte femministe. A partire da noi: qui ed ora.