“JIN, JÎYAN, AZADΔ: CHE LE DONNE VIVANO IN LIBERTÀ!

Il movimento delle donne kurde assicura l’organizzazione delle donne sulla base della loro propria ideologia, della loro propria politica, della loro propria autodeterminazione.

L’assunzione di tale coscienza, di tale qualità, di tale potere da parte di tutte le donne del mondo è di per se stessa una rivoluzione.

Il pensiero e la pratica delle donne curde nella rivoluzione del Rojava

Da settembre 2014 le Unità di difesa popolare (YPG) e le Unità di difesa delle donne (YPJ) hanno condotto una resistenza epica contro l’ultima ondata di attacchi sferrati dallo “Stato Islamico” nella zona del Kurdistan situata nel nord della Siria, il Rojava, e contro l’assedio al cantone centrale di Kobane. Dopo 135 giorni di assedio, il 31 gennaio 2015 la gente di Kobane ha liberato la città dallo “Stato Islamico”[1].

La rivoluzione del Rojava è stata una lotta di popolo sin dall’inizio. A differenza di altre rivolte non è stata cooptata da chicchessia ed è andata avanti affidandosi alle proprie forze. Infatti nel 2011, sin dall’insurrezione contro il regime di Bashar Assad, i curdi siriani non si sono schierati né con il governo di Assad né con alcuna delle forze dell’opposizione, islamista o laica, ma hanno praticato una “terza via”, organizzandosi non solo attraverso le proprie unità di autodifesa del popolo per la difesa militare del territorio (YPG e YPJ), ma anche con vere e proprie strutture di autogoverno[2].

Il processo di trasformazione sociale e politica che è in atto nel Rojava non ha l’obiettivo di costruire un nuovo stato, ma di creare un sistema alternativo al paradigma globale capitalista e maschilista dello stato-nazione, indivduando i fondamenti teorici e filosofici cui si ispira nella prospettiva del confederalismo democratico, elaborata dalla fine degni anni ‘90 ad oggi da Abdullah Ocalan, uno dei fondatori del Pkk (Partito dei lavoratori curdi). Il confederalismo democratico è basato su parità di genere, ecologia e democrazia dal basso ed è messo in pratica attraverso i consigli popolari[3].

Il protagonismo delle combattenti curde si è indiscutibilmente imposto all’attenzione mediatica dopo le coraggiose imprese riportate dalle YPJ nella resistenza a Kobane. Tuttavia le immagini riportate dai media occidentali sono esclusivamente quelle di belle e giovani donne in armi, con una rappresentazione volta ad alimentare l’immaginario esotico ed erotico della donna orientale ribelle ma che tralascia di affrontare la radicalità delle questioni universali che la lotta delle donne curde pone e omette completamente la narrazione del percorso rivoluzionario che hanno intrapreso. E’ questo percorso che vogliamo raccontare, individuandone i nessi con la nostra pratica femminista e facendo tesoro della loro esperienza.

L’adesione delle donne al movimento rivoluzionario del Pkk

Sin dalla fondazione nel 1978 molte donne curde aderirono al Pkk. Negli anni ’80 vi fu una repressione durissima da parte dello stato turco, molti esponenti vennero incarcerati e sottoposti a torture: la resistenza delle donne imprigionate, e fra loro quella di Sakine Cansiz una delle fondatrici del Pkk assassinata nel centro culturale curdo di Parigi il 9 gennaio 2013 assieme ad altre due militanti del Pkk: Fidan Dogan e Leyla Saylemez[1], ha certamente contribuito a creare un immaginario di lotta di liberazione in cui il ruolo della donna è centrale; e ad aumentare così la partecipazione delle donne. Ma, all’inizio, nell’approccio nei loro confronti c’era la tendenza a riprodurre anche all’interno delle formazioni e nelle strutture di partito i ruoli tradizionali di genere.

Il percorso separatista nel Pkk

Dalla fine degli anni ‘80 le donne curde si sono organizzate in unità combattenti separate e formate da sole donne: non più sotto il controllo di guerriglieri uomini, ma formazioni di donne che si muovono autonomamente, fanno e realizzano piani propri, contro obiettivi dell’esercito turco, ma anche con attacchi alle strutture che operano nella prostituzione forzata e nella tratta.
L’ autodifesa ha rafforzato la sicurezza di sè delle donne e negli anni seguenti la loro autorganizzazione si è estesa in tutti gli ambiti della società, con la costituzione di partiti e formazioni sociali, accademie di studio e di formazione per sviluppare progetti propri e rappresentare la loro volontà in maniera autodeterminata.

 La centralità della lotta di liberazione delle donne nel Pkk a partire dagli anni ’90

Va dato atto del notevole contributo teorico di Ocalan nel riconoscere il carattere imprescindibile della liberazione delle donne, facendone un perno centrale del sistema autonomo di confederalismo democratico e teorizzando ciò che le donne curde già praticavano all’interno della lotta di liberazione del popolo curdo.

Si può definire il periodo tra il 1993 e il 2003 come periodo di transizione per costruire un’alternativa alla modernità capitalista. Dagli anni ‘90, il crollo dell’Unione sovietica e del mondo bipolare, il declino delle guerriglie anticoloniali e la globalizzazione neoliberista, conducono il Pkk ad abbandonare il concetto di stato-nazione. Oggi sostiene un progetto di liberazione alternativo, in forma di autonomia regionale e autogoverno, un confederalismo democratico in cui la liberazione della donna viene intesa come necessità ineludibile per creare una società libera dai ruoli di genere, dalle strutture patriarcali di dominio poste a base della modernità capitalista.


«L’uomo è un sistema: è diventato stato e ha trasformato questo nelle cultura dominante. La mascolinità ha prodotto il genere che comanda e lo stato che comanda.

Il capitalismo e lo stato-nazione rappresentano il maschio dominante nella sua forma più istituzionalizzata.

La società capitalistica è la continuazione e il culmine di tutte le antiche società dello sfruttamento.

Obiettivo della discriminazione di genere è negare alle donne ogni speranza di cambiamento e il modo più efficace di funzionare dell’ideologia sessista è intrappolare il maschio in relazioni di potere e rendere la donna impotente attraverso lo stupro costante: schiavitù ideologica, violenza, colonizzazione della donna, esclusione dall’economia, sono tutti dispositivi attraverso cui è stata perpetrata la schiavitù delle donne e poi quella dell’intera società»[2].

Nella prospettiva del confederalismo democratico si sottolinea anche l’assoluta sterilità di una uguaglianza formale delle donne, se non è inserita nel contesto di politiche effettivamente democratiche, poiché è necessario innanzitutto scardinare le relazioni di potere e le modalità decisionali su cui gli attuali stati democratici basano l’esclusività del governo e tutto il discorso sul monopolio dell’uso forza.

Il ruolo delle donne negli autogoverni del Rojava

E’ a partire da queste premesse che si può conoscere con maggiore chiarezza la lotta che le donne nel Kurdistan della Siria – nella zona del Rojava – stanno conducendo e riconoscerne l’importanza paradigmatica.

Le donne kurde del Rojava hanno creato, quartiere per quartiere, organizzazioni educative e sociali per garantire lo sviluppo e la sicurezza dei bambini in un contesto di guerra, che in Siria dura da oltre tre anni. Il movimento delle donne è consapevole che la libertà deve comprendere tutti gli aspetti della vita. La liberazione delle donne è diventata un prerequisito nella resistenza curda contro l’oppressione e non sorprende che le donne in tutta la regione, arabe, turche, armene e assire, partecipino sia alle unità armate che ai consigli popolari. Insieme alle donne delle tante altre etnie che abitano il Rojava si sono mobilitate per lavorare a soluzioni politiche e sociali collettive per la liberazione delle donne. Rappresentano uno dei pilastri del sistema di autonomia democratica del Kurdistan siriano, composto da tre cantoni che si autogovernano; vi partecipano sia prendendo parte, con unità di donne combattenti, nelle azioni militari di difesa del territorio e della popolazione, sia ponendosi all’interno delle strutture sociali di autogoverno, dove hanno creato consigli di donne, accademie, scuole e cooperative[3].

La lotta delle donne curde non è dunque solo una lotta militare contro il neo- califfato dell’Isis per l’esistenza, ma una posizione politica contro l’ordine sociale e la mentalità patriarcale che sfida le strutture sociali esistenti attraverso l’emancipazione politica e sociale e l’autodifesa armata.

«Il 10% è la lotta contro il nemico ovvio.

Il 10% della lotta è contro le difficoltà metorologiche e delle natura.

Il 20% della lotta è contro l’attegiamento reazionario degli uomini che abbiamo incontrato all’interno del nostro movimento.

La percentuale rimanente è costituita dalle battaglie contro le nostre stesse dipendenze»[4].

L’importanza della pratica separatista

L’ esperienza separatista ha permesso alle donne di sviluppare sicurezza di sé, sempre più autonomia nella difesa personale e del proprio popolo, nella propria formazione, nella scelta di come vivere la propria vita, senza seguire un destino già segnato. Questo ha fatto sì che, negli ultimi anni, le donne abbiamo determinato le proprie vite, assunto ruoli decisivi all’interno della società e, passati i momenti emergenziali o di guerra, non siano tornate nei ruoli tradizionali. Grazie a questa rivoluzione sociale, politica e pratica iniziata dalle donne negli anni settanta e e portata avanti fino ad oggi, il popolo curdo è arrivato ad una organizzazione sociale e politica dei territori del Rojava molto avanzata, il confederalismo democratico, dove il genere oppresso da millenni, quello femminile, ha determinato la propria libertà e ha tolto al potere maschile il suo dominio e i suoi privilegi. Le donne hanno movimenti ed organismi separati. Questo accade non perché siano in lotta con gli organismi in cui sono presenti uomini; nè perchè donne e uomini debbano rimanere separati per tradizione: in molti casi le attività sono comunie. Le donne hanno attività ed organismi separati non solo per liberarsi dalla dominazione maschile all’interno della società, ma anche e soprattutto per una liberazione psicologica e mentale dalla presenza di maschi. Che anche gli uomini imparino ad arrangiarsi,senza bisogno di una donna che si prenda cura di loro![5].
In più, nella lotta contro ogni forma di potere, viene giustamente identificata la supremazia dell’uomo sulla donna come una delle prime forme di supremazia che poi ha dato seguito alle altre, incarnate principalmente dall’istituzione statale e dal potere che esercita sugli individui.

Se non ci fossero stati questi passaggi e le donne non si fossero mobilitate praticamente per se stesse, non sarebbe in atto questo esperimento politico, perché più della metà della società vivrebbe ancora oppressa dal dominio maschile e dalle sue stesse paure e incapacità di reagire allo stato delle cose.
Questo esperimento ancora in atto e le pratiche delle donne curde combattenti, ma anche di quelle non appartenenti per esempio alle unità di difesa delle donne, ma che praticano le propria libertà ed emancipazione all’interno della società, ci ha fatte avvicinare a queste donne. Il nostro incontro, infatti, non è stato casuale. Da sempre abbiamo cercato di sperimentare pratiche di autogestione, autorganizzazione e autoproduzione tra donne e di decostruire in maniera non ideologica il potere in tutte le sue declinazioni, i ruoli, i modelli, le dinamiche che non funzionano o che non vogliamo ci appartengano, un immaginario da femminile inferiorizzato che non ci corrisponde. L’importanza di un’ottica e di una pratica di genere all’interno delle situazioni e delle lotte in cui alcune di noi sono presenti, come la lotta contro il TAV, contro gli sfratti, contro il razzismo e la “supremazia” del pensiero occidentale, contro le nocività, contro le morti di stato, contro i femminicidi etc… è il perno della nostra azione femminista.

Dal Rojava a noi

Molti sono i temi e le pratiche che ci uniscono al pensiero e alla lotta delle donne curde, che da decenni lottano per la liberazione del proprio popolo, partendo dal riconoscimento del dominio maschile e patriarcale, sia che si manifesti attraverso lo stato, sia nelle relazioni familiari o politiche, come primo ostacolo da superare per la realizzazione di una società veramente libera. Per la prima volta nella storia un movimento rivoluzionario dichiara improrogabile e imprescindibile dalla lotta di liberazione di un popolo la questione di genere. Questo tipo di lettura della società ha come primo obiettivo, teorico e pratico, la liberazione dal patriarcato, la prima forma di oppressione esistita al mondo in cui si è ben inserito il capitalismo.

Anche per noi femministe radicali ogni percorso e ogni azione politica e quotidiana parte da queste consapevolezze e mira a modificare i rapporti di sottomissione/oppressione e a farci uscire da ruoli che incarniamo da millenni. La costruzione sociale e politica dei generi, in cui fin dalla nascita ci mettono e ci crescono, va smascherata e superata e per farlo le donne per prime devono prendere in mano concretamente le proprie vite e provare a praticare altro. Solo così la liberazione della società avrà speranze di realizzarsi.

Un altro punto che ci trova concordi con le donne curde è l’importanza della pratica di genere. Sakiné Cansiz affermava: «il movimento [femminista] si fonda sulla pratica e la teoria si rinnova continuamente, rinnovarsi continuamente e dare battaglia ad ogni dogmatismo». Il metodo che sentiamo a noi più caro, che viene utilizzato anche dalle donne del movimento curdo, è quello del partire da sé, cercando di essere presenti con la nostra lotta al sistema patriarcale nei percorsi e nei movimenti, portando un nostro contributo pratico e teorico. Insomma una rivoluzione interna che parte dalle proprie contraddizioni ed una esterna volta a modificare l’esistente, le due facce della stessa medaglia. Perché la pratica senza la teoria perde di profondità e valore, viceversa la teoria senza un risvolto pratico rischia di essere senza corpo. Al contrario crediamo che una lotta, senza questi radicali cambiamenti, avrebbe le gambe corte o sarebbe una battaglia parziale destinata al fallimento. Bisogna partire da una gestione collettiva e condivisa del territorio, delle risorse, delle relazioni tra persone e generi e della gestione dei conflitti interni alle comunità. Non è facile, ma l’esperienza odierna del Kurdistan siriano può aiutare a far capire che è possibile e che può funzionare.

Un aspetto legato alle pratiche, in cui ci sentiamo vicine al movimento delle donne curde è quello della formazione di una «comunità altra». Quando una lotta funziona, come in molte zone del Kurdistan o per esempio in val Susa, significa che un nuovo modo di autogestirsi e relazionarsi si è creato o almeno ci si sta provando. L’ esempio del confederalismo democratico, messo in pratica nel Rojava, ne è il paradigma per eccellenza, perché sta dimostrando che è possibile vivere senza uno stato-nazione, senza un potere centrale e fuori dalle logiche politiche ed economiche del neoliberismo.

Ci sentiamo vicine alla rivoluzione femminista curda anche perché non considera le donne come membri di un genere oppresso e debole. Le donne curde hanno scelto la strada, come dicono loro stesse, dello «stare in piedi», della resistenza. I maschi dominanti spontaneamente non darebbero spazi di libertà alle donne, perché ciò significherebbe perdere i propri privilegi, quindi le donne la loro libertà se la devono creare, non aspettarla come una temporanea concessione. Da qualche anno con altre femministe radicali, in Italia, stiamo ragionando e lavorando su questo stesso concetto, definendo un discorso post-vittimista[6], in cui la donna esca dal ruolo di vittima incapace di reagire ai propri oppressori e diventi parte attiva, non delegando al maschio o allo stato la propria formazione e la propria difesa.

Spesso le donne sono vittime di violenze agite da padri, mariti, fratelli, fidanzati, datori di lavoro, uomini in divisa etc… che poi vorrebbero anche arrogarsi il diritto di difenderle attraverso lo stato maschile e patriarcale, che prima crea le condizioni sociali e culturali perché tali violenze avvengano e poi a colpi di decreti sul femminicidio vuole tutelarle, facendo passare, già che c’è, leggi contro i movimenti sociali . Su questo, nel nostro percorso post-vittimista ed in perfetta armonia con la pratica e il pensiero delle compagne curde, riteniamo fondamentali due aspetti: la formazione culturale e politica separata e la pratica dell’autodifesa separata da sviluppare tramite corsi di autodifesa autorganizzati[7].

E’ per noi necessario ricavarsi dei momenti di riflessione, di discussione, di formazione e di pratica separate, perché abbiamo verificato che solo in queste circostanze le donne riescono a tirar fuori il massimo delle proprie potenzialità, in quanto non soggette a quello sguardo maschile, che seppur involontariamente, le condiziona e le frena. Solo così, crediamo che le donne, se lo desiderano, possano poi riportare nelle lotte e nelle pratiche miste un alto contributo o almeno il massimo delle proprie capacità e volontà.

Un altro argomento che ci trova affini con le donne curde in lotta è la questione dell’immaginario. La rappresentazione dell’immagine femminile all’interno della società da parte del potere, sia in occidente che in oriente, è tesa a mantenere le donne in un ruolo funzionale alla società patriarcale. L’argomento è complesso e non crediamo certo di risolverlo in questo scritto, però vorremmo partire da due esempi per iniziare a renderne almeno l’idea.

Quando l’IS attaccò Kobane, su stampa e televisioni italiane non si parlava delle donne combattenti curde. Quando sui social network iniziarono a circolare fotografie e immagini che le ritraevano combattere in posizioni determinanti e in ruoli decisionali nella difesa delle zone attaccate, oltre ad aiutare donne e bambini nei campi profughi, ci fu un massificato tentativo di neutralizzare la loro determinazione e la loro capacità di autodifesa armata. Venivano da più parti mostrate foto e immagini che le ritraevano sempre con bambini in braccio o in funzioni legate alla cura, compiti importantissimi durante gli attacchi ai civili, ma l’operazione era tesa a far intendere che non fossero capaci di fare altro. Oppure venivano esibiti primi piani di donne molto giovani sottolineandone la bellezza, creando o alimentando l’immaginario esotico ed erotico della donna orientale ribelle. Ribelle e bella perché lontana, chiaramente, visto che se fosse stata qui, in occidente, l’avrebbero definita una terrorista criminale.

In parallelo si può guardare come negli ultimi anni in Italia alcuni giornali hanno dipinto le donne del movimento NO TAV. Di loro si scriveva che ormai da brave massaie, che si opponevano pacificamente e simbolicamente al TAV, si erano trasformate in «brutte e cattive» donne. In realtà sono donne che con determinazione e in prima persona lottano contro un sistema in cui non si riconoscono.

Questi due esempi, oltre a mostrare come i media e i giornali propinino una narrazione tossica della realtà e siano al servizio di stati e governanti, ci danno anche un’indicazione sul fatto che durante una lotta la rigida divisione dei ruoli di genere può essere sovvertita e che una società altra può crearsi, con relazioni diverse tra persone e senza dinamiche di potere. Non è un cammino facile, lo sappiamo, ma l’esperienza del confederalismo democratico nel Rojava sta mostrando che è una prospettiva percorribile. Oltre a rendere evidente che le cosiddette «democrazie occidentali» non sono il migliore dei mondi possibili e che un modello orientale all’interno di una società musulmana può essere più avanzato ed emancipato del nostro.

La falsa contrapposizione tra “civiltà” e “barbarie”

Se l’organizzazione delle donne curde in autonome unità combattenti si colloca, come abbiamo visto, in una prospettiva di autodifesa e di lotta al patriarcato, ben diverso è l’approccio di donne che hanno aderito all’Isis per svolgere varie mansioni, che vanno dalla raccolta d’informazioni al servizio di sussistenza, dalla preparazione del cibo alla condivisione sessuale. Alcune sono impiegate come vigilesse, col compito di controllare che tutte rispettino le leggi di abbigliamento e di condotta “islamiche” nella versione imposta dall’Isis, altre sono riunite in una brigata creata ad hoc, la al-Khansa, col compito di assoldare mogli per i combattenti dell’Isis. Tutte sono attirate da una campagna mediatica che promette loro di poter vivere in un vero stato “islamico” accanto a un marito jihadista. Il numero esatto di donne che hanno aderito alle armate del terrore in Siria e Iraq è impossibile da accertare, ma spiccano le almeno 30 europee ivi stanziate che hanno accompagnato i loro mariti jihadisti o vi si sono recate con l’intenzione di sposarne uno[8].

Cooptate nel progetto di costruzione di uno stato in cui la violenza contro le donne e la rigida divisione dei ruoli di genere sono fra i cardini principali, queste donne si rivelano non solo   persecutrici le une delle altre, ma soprattutto complici del modello patriarcale.
Come in ogni guerra, anche in quella di conquista che il cosiddetto Stato Islamico sta conducendo, assumono un ruolo di primo piano lo stupro di massa, la schiavitù sessuale e la tratta di esseri umani, usati come armi, forme di controllo e di sopraffazione. Solo da agosto 2014 a Shengal in Iraq migliaia di bambine, adolescenti e donne curde-yezide, turcomanne e di altre comunità sono state rapite dalle bande dell’Isis, violentate e vendute al mercato degli schiavi.

Inoltre, una delle principali strategie utilizzate per neutralizzare l’opposizione interna nei territori conquistati è quella di istituire legami di sangue attraverso matrimoni forzati tra i combattenti dell’IS e le donne del posto, matrimoni che a loro volta mirano a consolidare il consenso locale e a produrre legittimità. E che si tratti di una strategia antica tanto quanto il dominio patriarcale, ce lo ricorda la violenta vicenda delle donne di Sabinia, prima stuprate e poi costrette all’unione familiare con gli uomini della vicina Roma per creare stabili formazioni sociali nella città appena fondata e portare così avanti la crescita espansionistica[9].

 

L’enormità di tali violenze va senz’altro denunciata e contrastata, ma non certo attraverso la   falsa contrapposizione tra “civiltà” e “barbarie”. Una falsa contrapposizione che l’Occidente aveva già utilizzato per giustificare il colonialismo del secolo scorso e che continua a propagandare per legittimare la discesa in campo nelle guerre condotte negli ultimi anni finalizzate al mantenimento della propria supremazia, in Medio Oriente e non solo.

Mentre gli stati occidentali continuano ad intessere rapporti politici ed economici con le monarchie del golfo (Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Kuwait) che da decadi armano gruppi terroristici[10], il discorso dominante narra di “guerre umanitarie”, condotte dalla coalizione occidentale guidata dagli Stati Uniti sotto l’egida di Nato ed Unione Europea contro dittature e organizzazioni terroristiche ed anche combattute per liberare le donne afghane dall’oppressione del burka o, come oggi avviene, per contrastare le violenze perpetrate dall’Isis contro la popolazione femminile in Iraq – ben guardandosi pero’ dal ricordare come sulle stesse donne iraqene ancora sanguinano le ferite, se non fisiche psicologiche, per le violenze sessuali inferte dai militari Usa durante i 10 anni di invasione[11].

La celebrazione della Nato e dell’Unione Europea come bastioni di civiltà punta dunque a far dimenticare le connivenze e le responsabilità dell’Occidente nelle guerre di questi anni, in cui le donne ancora una volta hanno pagato e tuttora pagano un tributo altissimo.

Piuttosto, occorre evidenziare come la violenza contro le donne prosegua immutata non solo nei contesti di guerra ma in ogni parte del mondo in cui le costruzioni sociali di genere, classe e razza perpetrano le pratiche di sfruttamento e di attacchi contro ogni diversità.

Per concludere ci sentiamo di poter dire che, ancora una volta, la resistenza e la pratica rivoluzionaria che si sono sviluppate sui monti di una parte del mondo, si è intrecciata con quella dei villaggi e delle città, creando un pensiero e una pratica esportabili in tutto il mondo, e che se le donne vogliono liberarsi dalla schiavitù del patriarcato devono solo provarci in prima persona, come le nostre compagne curde stanno sperimentando, senza se, senza ma, qui e ora!

[1]             Nursel Kihc, Il femminicidio un crimine contro l’umanità, pubblicato in Donne curde in Iraq, Siria, Europa. Praticare la libertà contro la guerra senza fine del sistema patriarcale. Atti del convegno dell’11 ottobre 2014 a Roma, Edizioni Punto Rosso, 2014.

[2]             Abdullah Ocalan, Liberare la Vita: la Rivoluzione delle Donne, Edizioni Iniziativa Internazionale, 2013.

[3]             Vedi schedatratta dalla Staffetta Romana per Kobane.

[4]             Uikionlus, “…perche’ la liberta’ non rimanga solo un sogno!”. Lotta e organizzazioni autonome delle donne in Kurdistan, 2013.

[5]             Silvia Todeschini, Le pratiche e le teorie.

[6]             Nicoletta Poidimani, Postvittimismo.

[7]             Corso di Autodifesa Femminista.

[8]             Anna Vanzan, Le “altre” donne dell’IS .

[9]             Cfr. Loretta Napoleoni, Isis. Lo Stato del terrore, Feltrinelli, 2014.

[10]           Anna Vanzan, Terrorismo “islamico” e possibili soluzioni.

[11]           Nazanín Armanian, Marines, Jahadisti e stupri di guerra.

[1]             Dilar Dirik, Perchè kobane non è caduta.

[2]             Daniele Pepino, Kurdistan, nell’occhio del ciclone/1 , Kurdistan, nell’occhio del ciclone/2.

[3]             Cfr. Abdullah Ocalan, Il confederalismo democratico, Edizioni Iniziativa Internazionale, 2011.