Democrazia senza stato: come il movimento delle donne curde ha liberato la democrazia dallo stato

Prima di cominciare, vorrei dedicare questo discorso a tutte le donne rivoluzionarie che lottano in tutto il mondo, specialmente a coloro che stanno combattendo contro quella disgustosa mentalità che si definisce Stato Islamico. Come sapete le donne curde si trovano al momento a combattere contro l’IS in prima linea. Inoltre vorrei dedicare questo discorso a tre donne curde rivoluzionarie che furono brutalmente assassinate nel cuore di Parigi l’anno scorso. Noi stiamo aspettando giustizia per Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Solemez da un anno, otto mesi e dodici giorni.

Azadî, libertà. Un concetto che ha catturato l’immaginario collettivo del popolo curdo per lungo tempo. L’ideale, apparentemente irraggiungibile, di un Kurdistan libero assume però molteplici forme, a seconda di dove ci si posizioni all’interno dell’ampio spettro della politica curda. La crescente indipendenza dallo stato iracheno del Governo regionale del Kurdistan (KRG) nel Kurdistan meridionale (Bashur), così come i grandi risultati ottenuti dal popolo curdo nel Kurdistan occidentale (Rojava), nonostante la guerra civile siriana nel corso dell’ultimo anno, stanno facendo rinascere il sogno di una vita libera per i curdi in Kurdistan.

Ma cosa significa libertà? Libertà per chi? La questione curda è spesso concepita come una questione relativa alle relazioni internazionali, agli stati, al nazionalismo e all’integrità territoriale. Tuttavia, la libertà è una questione che trascende l’etnicità come anche i confini artificiali dello stato nazione. Per essere in grado di parlare di un Kurdistan che meriti realmente l’attributo di “libero”, tutti i membri della società devono avere pari accesso a questa “libertà” e non solo in senso giuridico ed astratto. Non è l’ufficialità di un entità chiamata Kurdistan – abbia essa la fisionomia di uno stato indipendente, uno stato federale, un governo regionale o di qualsiasi altra forma di autodeterminazione – a definire il benessere della popolazione curda. Piuttosto è la situazione delle donne ad essere un buon indicatore del grado di democrazia e libertà di una data società.

Quale fine potrebbe mai avere un Kurdistan indipendente, se poi finirà per opprimere metà della sua popolazione?

Le donne curde, come membri di una nazione senza Stato in un contesto feudale-islamico in gran parte patriarcale, devono affrontare diverse forme di oppressione e quindi lottano su più fronti. Mentre i quattro diversi stati in cui è diviso il Kurdistan presentano tutti forti caratteristiche patriarcali, che determinano l’oppressione di tutte le donne che vivono in questi stati, le donne curde sono ulteriormente discriminate, in termini etnici, in quanto curde e solitamente in quanto membri della classe socio-economica più bassa.

Naturalmente anche le strutture feudali-patriarcale interne alla società curda limitano la libertà e l’autonomia delle donne curde. Abusi domestici, matrimoni forzati di donne adulte e bambine, stupri, delitti d’onore, imposizione della poligamia, sebbene spesso considerati come questioni private, sono invece problemi che richiedono impegno sociale ed interventi pubblici. Questa strana distinzione tra il pubblico e il privato è costata la vita di molte donne.

Gli uomini curdi sono spesso molto espliciti nel condannare le discriminazioni etniche e di classe, ma quando commettono violenza contro donne e bambini nella dimensione del “privato” non riflettono sui propri abusi di potere e sul proprio dispotismo. La capillare diffusione della violenza contro le donne curde, e diciamolo, contro le donne in tutto il mondo, è un problema sistemico – che di conseguenza richiede una soluzione politica.

La situazione delle donne non è una “questione femminile” e, pertanto, non deve essere trattata come un fatto privato e particolare, di solo interesse delle donne. La questione della parità di genere è infatti una problema politico di democrazia e libertà che riguarda la società tutta ed è uni indicatori – sebbene non l’unico – del grado di eticità di una comunità. Poiché il capitalismo, il dominio dello stato e il patriarcato sono tutte strutture di potere interconnesse, la lotta per la libertà deve essere radicale e rivoluzionario e deve considerare la liberazione delle donne come un obiettivo primario e non come una questione secondaria.

Sebbene le donne curde abbiano una lunga storia di lotta nel movimento di liberazione nazionale, esse sono state spesso emarginate in questo movimento. Se da un lato, le femministe delle popolazioni maggioritarie all’interno dei quattro Stati fra cui il Kurdistan è diviso spesso escludono le donne curde dalla loro lotta – per esempio dando per scontato che le curde siano intenzionate ad adottare le dottrine nazionaliste di questi stati oppure vittimizzandole come soggette di una cultura arretrata e primitiva, dall’altro lato anche i partiti curdi sciovinisti e maschilisti, caratterizzati da una struttura feudale e patriarcale, la cui comprensione della libertà non va oltre una forma basica e vuota di nazionalismo, ebbene, mettono a tacere la voce delle donne curde.

Affermare che le donne curde siano sempre state più forti ed emancipate delle loro vicine di casa (e le fonti storiche sembrano suggerirlo) non deve essere inteso come un pretesto per smettere di lottare per i diritti delle donne curde. Anche se la peculiarità dei ruoli ricoperti dalle donne curde nella storia di tutte e quattro le parti del Kurdistan merita riconoscimento, anche le numerosi manifestazioni di crudele violenza contro le donne kurde devono essere riconosciute poiché servono ad illustrare la situazione nella sua concretezza e dovrebbero servire a fare i conti con la realtà. Se oggi le donne curde godono di una status politico relativamente buono, questo è il risultato di una costante lotta su molteplici fronti che le donne curde hanno ingaggiato e non è una condizione data ed inerente alla società curda!

La partecipazione delle donne nelle lotte di liberazione e le loro ambizioni rivoluzionarie non sono elementi che caratterizzano la lotta curda come unica. In ogni tipo di contesto le donne hanno spesso giocato un ruolo attivo nella lotta per la libertà. Guerre , sollevamenti e rivolte hanno spesso offerto alle donne uno spazio per affermarsi ed avanzare rivendicazione in modi impensabili all’interno di contesti di normale vita civile. Infatti, l’impegno sociale delle donne, espresso in termini di partecipazione alla forza lavoro o militanza politica, ha spesso offerto legittimità alle loro richieste di emancipazione. Tuttavia, una volta conclusa la situazione di crisi o la “liberazione” o “rivoluzione”, il ritorno alla precedente normalità e a varie forme di conservatorismo viene considerato necessario al fine di ristabilire la vita civile. Tutto ciò ha spesso significato la ricomposizione dei ruoli di genere tradizionali, in modi che sono risultati particolarmente dannosi per le recenti conquiste delle donne.

Purtroppo, è un fenomeno abbastanza comune il fatto che le donne subiscano una riduzione dei propri diritti “dopo la liberazione”, “dopo la rivoluzione”, “una volta che la nostra terra è libera”, nonostante siano state attrici determinanti durante la lotta. La speranza che, una volta raggiunto l’obiettivo di una “libertà” generale, tutti siano liberi, ha dimostrato essere niente di più di un mero desiderio – e le donne dagli Stati Uniti all’Algeria, dall’India al Vietnam, lo possono confermare. La più recente manifestazione di questo fenomeno riguarda la condizione delle donne nei paesi della cosiddetta “primavera araba”.

Sebbene durante gli ultimi anni sui nostri schermi televisivi siano apparse numerose immagini di donne, che hanno protestato contro regimi oppressivi e giocato un ruolo chiave nei movimenti, terminate le rivolte, la condizione di queste donne è in alcune occasioni peggiorata. Ciò è dovuto al fatto che, mentre il dissenso generale e la disillusione verso la classe dirigente al potere spesso trascendono le appartenenze di genere, classe, etnia e religione, è chiaro che coloro che hanno più da guadagnare da una rivolta sono le donne, la classe operaia e le minoranze e i gruppi oppressi. Se i movimenti sociali non prestano attenzione a queste specificità, i nuovi regimi che emergono dalle rivolte non possono che formare nuove élite ed opprimere nuovamente i gruppi più vulnerabili. La necessità di organizzazioni indipendenti ed autonome di donne risuona anche nell’esperienza di lotta donne curde.

La regione del Kurdistan che è stata più comunemente definita come “libera” è quella meridionale. Lì, i curdi godono di un regime di semi-autonomia, hanno loro strutture di governo e non sono più oppressi o perseguitati a causa della loro origine etnica, come ancora accade in altre parti del Kurdistan. Il Governo Regionale del Kurdistan (KRG) è stato elogiato a livello internazionale per aver istituito un’entità economicamente forte e relativamente democratica, soprattutto se comparato alle disastrose condizioni del resto dell’Iraq. Così, messo il relazione con l’Iraq, il KRG trova spesso legittimazione, nonostante le sue strutture interne siano profondamente antidemocratiche e gli attori dominanti siano estremamente tribali, autocratici e corrotti – in un contesto dove il dissenso viene messo a tacere e i giornalisti vengono assassinati in circostanze dubbie.

Il pragmatico KRG ha instaurato relazioni amichevoli con regimi come l’Iran o la Turchia, che opprimono brutalmente la propria popolazione curda e anche e addirittura emargina le ambizioni di autonomia dei curdi in Siria. Come se non bastasse, il KRG sembra anche essere, per le donne curde, il luogo più difficile dove vivere.

È interessante notare che l’entità curda che maggiormente ha assunto la forma di uno stato, che più si è integrata nel sistema capitalistico e che soddisfa i requisiti dei poteri locali come la Turchia e l’Iran così come quelli del sistema internazionale non mostri il minimo interesse per i diritti delle donne e la lotta al patriarcato. Questo ci dice molto circa i modi in cui diverse forme di oppressione si intersecano, ma offre anche molti spunti di riflessione sulla questione di quale tipo di Kurdistan possa essere tollerato dalla comunità internazionale.

Sebbene vada tenuto conto del fatto che il Kurdistan meridionale sia una regione in via di sviluppo, è pur vero che il governo avrebbe a disposizioni molti strumenti per migliorare la condizione delle donne e non sembra essere intenzionato a impegnarsi in questo senso. In teoria, ci si aspetterebbe che le donne che vivono nel Kurdistan meridionale godano di migliori condizioni di vita rispetto alle donne che vivono in altre zone del Kurdistan, poiché il Kurdistan meridionale è una regione prospera e governata da curdi, dove le donne non sono perseguitate a causa della loro appartenenza etnica. Tuttavia, anche se le donne del Kurdistan meridionale non soffrono l’oppressione etnica, esse sono vittime del feudalesimo tribalista dei partiti dominanti, che sembrano concepire la libertà esclusivamente sotto la forma di un nazionalismo di facciata e in relazione al sistema di sviluppo capitalista.

Le donne del Kurdistan meridionale sono molto attive nel rivendicare i propri diritti, ma il KRG spesso non riesce ad applicare le sue leggi. La violenza contro le donne è una epidemia, in continua crescita, e il governo non fa abbastanza per contrastarla. Escludendo i casi in cui non è stata presentata una formale denuncia, nel 2011-2012 sono stati registrati quasi 3000 casi di violenza contro le donne, ma solo in 21 casi sono state ufficialmente formulate delle accuse. Inoltre, i pochi uomini sanzionati dal sistema giudiziario vengono spesso rilasciati in tempi molto brevi. A volte le vittime della violenza maschile sono ancora umiliate e colpevolizzate per aver “provocato” l’aggressore. Dal momento che la punizione non appare come un deterrente per la violenza maschile, il sistema perpetua l’oppressione delle donne.

La mancanza di organizzazioni delle donne veramente indipendenti e non partitiche costituisce un ulteriore problema. Molte organizzazioni di donne nel Kurdistan meridionale sono presiedute da uomini! La politica tribalista e feudale implementata in questa regione incoraggia senza dubbio atteggiamenti patriarcali che sono ostacoli enormi per la liberazione delle donne. Mentre affrontare le espressioni di violenza contro le donne sembra essere una questione maggiormente riconosciuto, non si può certo dire che vi sia una sfida sistematica al sistema patriarcale nel suo complesso nel Kurdistan meridionale.

L’esistenza di autonomi organi decisionali delle donne è una prerequisito essenziale per ottenere la rappresentanza degli interessi specifici delle donne. La concessione – dall’alto verso il basso – dei diritti delle donne è un approccio inadeguato per lottare contro il patriarcato poiché questo metodo finisce per rafforzare il dominio maschile in modo passivo. Al contrario la realizzazione di progetti dal basso sembra essere una modalità molto più efficace di trasformazione della società: per esempio, un progetto di documentario indipendente sulle mutilazioni genitali femminili (che sembrano verificarsi solo nel Kurdistan meridionale) ha ottenuto un cambiamento nella legge del KRG. Purtroppo però le mutilazioni genitali femminili continuano ad essere praticate impunemente.

È importante sottolineare che questa non è in alcun modo di una pratica connaturata alla cultura del Kurdistan meridionale. Le cause della situazione delle donne sono piuttosto di natura politica e vanno ricercate nella mancanza di interesse dei partiti politici ad impegnarsi per la liberazione delle donne. Si tratta di una scelta politica consapevole operata da partiti a prevalenza maschile. Ma le cose potrebbero andare diversamente!

L’idea che “Ora che abbiamo un Kurdistan ‘libero’ e sarebbe meglio non criticare troppo” sembra essere abbastanza diffusa sebbene sia dannosa ai fini di una reale comprensione di ciò che sono democrazia e libertà.

Che le donne esigano che la violenza contro di loro sia sanzionata legalmente e che i propri interessi siano rappresentati all’interno della sfera pubblica non significa che esse non siano “fedeli allo stato”. D’altronde sembra difficile poter essere fedeli a un tale stato patriarcale. Le donne hanno bisogno di superare ogni affiliazione partitica per trasformarsi effettivamente in un movimento femminile, al di là di piccole ONG. Le donne del Kurdistan meridionale non dovrebbero accontentarsi di nulla di meno, soprattutto perché hanno a disposizione più strumenti, meccanismi e risorse per lavorare nella direzione di una società egualitaria di quanto non dispongano le donne curde che vivono in altre regioni.

Anche le donne militanti nei partiti curdi di sinistra e socialisti hanno sperimentato che, senza strutture organizzative autonome, le loro voci venivano messe a tacere all’interno della società curda patriarcale. Infatti, nonostante il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il PKK, spicchi per il numero di donne che ricoprono ruoli prominenti nei suoi ranghi e per l’impegno che ha dedicato alla lotta per la liberazione delle donne, non vi è sempre stata una buona agibilità per le donne dentro il movimento di guerriglia del PKK. Nel 1980, la composizione demografica del PKK, che nelle sue prime fasi aveva raccolto principalmente frequentatori dei circoli universitari socialisti, fu modificata dall’arrivo di persone provenienti dai gruppi sociali poco istruiti, che si unirono alla lotta nelle montagne dopo che i loro villaggi rurali furono distrutti dallo stato turco.

Poiché la maggior parte di queste persone non erano state esposte agli ideali del socialismo e del femminismo, concepivano il nazionalismo come unico obiettivo di lotta. In quel periodo, molte donne nel movimento guerrigliero lottavano per convincere i compagni maschi del loro uguale valore. Durante la feroce guerra degli anni ottanta, si trascurò anche l’educazione e la formazione dei partigiani, poiché si considerò che la guerra fosse più urgente. Tuttavia questo permise alle donne di prendere coscienza dell’esigenza di organizzazioni femminili autonome!

Il PKK e altri partiti che ne condividevano l’ideologia riuscirono a creare meccanismi che garantissero la partecipazione delle donne nella sfera politica e posero ulteriori sfide alla cultura patriarcale. L’ideologia del PKK è esplicitamente femminista e non fa compromessi quando si tratta di liberazione delle donne. Diversamente da altri soggetti politici curdi, il PKK non si è mai rivolto ai feudatari tribali per ottenere sostegno al fini di raggiungere i propri obiettivi, ma al contrario ha sempre mobilitato i gruppi rurali, la classe operaia, i giovani e le donne.

La forza del movimento delle donne che è risultata dall’adozione di meccanismi quali la co-presidenza (una donna e un uomo che condividono una poltrona) e le quote di genere 50-50 nelle commissioni a tutti i livelli amministrativi dimostra che questi dispositivi non sono mere concessioni simboliche. L’ufficializzazione della partecipazione delle donne dà loro un modello organizzativo di supporto per assicurarsi che la loro voce ottenga risultati e che contribuisca a sfidare le consuetudini e trasformare la società curda.

Questo a sua volta ha portato alla vasta divulgazione del femminismo nel Kurdistan settentrionale. La lotta delle donne non è più un ideale appartenente esclusivamente alle élite dei circoli di attivisti, ma un prerequisito indispensabile per portare avanti la lotta di liberazione nazionale. Il dominio maschile non è accettato in questi ambienti politici, e questo vale sia per i livelli amministrativi superiori, sia per le organizzazioni locali la base. Tutto ciò è stato raggiunto grazie alla costituzione di organizzazioni delle donne autonome all’interno del movimento.

Sebbene le problematiche irrisolte riguardanti la violenza contro le donne siano ancora molte nel Kurdistan settentrionale, l’attenzione alla parità di genere, intesa come misura della libertà della società, ha permesso in questa regione la politicizzazione delle donne, dalle giovani alle anziane, e ha promosso la consolidazione del movimento delle donne, rendendolo incredibilmente popolare. Ora molte donne turche cercano ispirazione nelle esperienze delle donne curde. Infatti, mentre la Turchia ha un primo ministro che incoraggia le donne a sposarsi giovani, a coprirsi e fare almeno quattro bambini, e i tre principali partiti turchi hanno tutti meno del 5% di donne nei loro ranghi, il partito delle Regioni Democratiche del Kurdistan (BDP) come così il più recente Partito Democratico del Popolo (HDP) contano fra le loro file almeno il 40% di donne e si focalizzano nettamente su questioni di genere e LGBT. Lo stesso movimento curdo delle donne critica il patriarcato in Kurdistan e sottolinea i risultati finora ottenuti non indichino in nessun modo la fine della lotta.

Influenzati da questa posizione sulla liberazione delle donne, i maggiori partiti nel Kurdistan occidentale, il Rojava, hanno adottato l’ideologia PKK e il sistema della co-presidenza come anche le quote di genere 50-50 all’interno dei loro organi politici. Per garantire che i diritti delle donne non venissero compromessi, questi partiti hanno implementato fin dall’inizio meccanismi legali, organizzativi e ideologici che promuovessero la liberazione della donna, questo anche per quel che riguarda le forze di difesa.

Gli uomini con una storia di violenza domestica o di poligamia imposta sono esclusi dalle organizzazioni politiche. La violenza contro le donne e il matrimonio delle bambine sono pratiche fuorilegge e criminalizzate. Gli osservatori internazionali che visitano il Kurdistan occidentale raccontano tutti del loro stupore di fronte alla trasformazione rivoluzionaria della condizione delle donne che è in corso attualmente, nonostante la terribile guerra civile siriana.

Allo stesso tempo, i Cantoni recentemente costruiti nel Kurdistan occidentale incorporano saldamente altri gruppi etnici e religiosi all’interno del proprio sistema. Nello spirito del modello del “confederalismo democratico”, come proposto dal leader del PKK Abdullah Öcalan, questi Cantoni hanno abbandonato ogni rivendicazioni di uno stato curdo, perché ritengono lo stato un’istituzione inerentemente egemonica che non rappresenta gli interessi del popolo. I partiti maggioritari sottolineano di non volere la secessione dalla Siria, ma di cercare una soluzione democratica all’interno dei confini esistenti con un governo che includa le minoranze e dia uguale voce a donne e uomini, perla costruzione di un “sistema democratico di base, radicale, ecologico e per la parità di genere”, in cui diversi gruppi etnici e religiosi possono vivere in uguaglianza.

I risultati ottenuti nel Kurdistan occidentale sono stati ripetutamente attaccati dal regime siriano di Assad e da gruppi jihadisti collegati ad al Qaeda, che sembrano in parte essere finanziati e sostenuti dalla Turchia.

È quanto meno curioso osservare come il rispetto dei diritti delle donne dell’entità curda più ricca, istituzionalizzata e riconosciuta, il KRG, sia assolutamente scarso e inadeguato; e come il Kurdistan occidentale, nonostante embarghi economici e politici e un’orribile situazione di guerra, abbia creato molteplici strutture che garantiscono la rappresentanza delle donne all’interno della cornice del confederalismo – un assetto politico che va oltre nazionalismo e la rivendicazione di uno stato. Le posizioni della comunità internazionale a questo proposito sono particolarmente illuminanti! Mentre il KRG è stato spesso lodato come un modello per la democrazia nella regione, il Kurdistan occidentale è completamente ignorato.

Se gli attori internazionali che si dichiarano sostenitori della libertà e della democrazia in Medio Oriente fossero veramente interessati alla pace in Siria, allora sosterrebbero l’avanzato e laico progetto di governo che si sta realizzando nel Kurdistan occidentale. Al contrario, i curdi [del Rojava] sono stati esclusi dalla Conferenza di Ginevra II che ha avuto luogo a gennaio 2014. E questo è accaduto con il sostegno del KRG, che ha contribuito a marginalizzare i risultati ottenuti nel Kurdistan occidentale, soprattutto a causa del fatto che i partiti maggioritari di quella regione sono vicini – non organizzativamente, ma ideologicamente – al PKK, il tradizionale rivale del partito di governo del KRG.

Il modello di progresso, democrazia, libertà e modernità proposto dal KRG non sfida il sistema capitalista, statalista, nazionalista e patriarcale che domina a livello globale. E questo è il motivo per cui il KRG sembra essere il tipo di Kurdistan che può essere tollerato dalla comunità internazionale, mentre quei partiti che potrebbero potenzialmente turbare questo il sistema sono emarginati.

Alcuni eventi recenti mostrano i modi sessisti in cui l’ideologia femminista di alcuni partiti curdi viene attaccata. In un tentativo di mostrarsi alleato della popolazione curda, il primo ministro turco Erdogan ha invitato il presidente del KRG Masoud Barzani ad Amed (Diyarbakır) – la capitale non riconosciuta del Kurdistan turco. Accompagnato da cantanti come Sivan Perwer e Ibrahim Tatlises, noti per il loro opportunismo e il loro sessismo retrogrado, hanno dato inizio ad Amed a una vera e propria commedia degli equivoci. L’incontro è stato nel complesso un bizzarro tentativo di emarginare i curdi in Turchia, in particolare il PKK e i partiti legali del Kurdistan settentrionale come Partito delle Regioni Democratiche (BDP).

Durante un matrimonio, i due politici hanno dato la loro benedizione a qualche centinaio di coppie, tutte coppie in cui la donna rappresentava il modello tradizionale di femminilità sostenuto da entrambi, Erdogan e Barzani. Quasi tutte le spose indossavano un velo e tutte le coppie erano molto giovani. Questa affermazione di conservatorismo in nome della “pace” ha evidenziato importanti similitudini nelle mentalità patriarcali e retrograde dei due governanti. Nel tentativo di marginalizzare il PKK, i due politici hanno infatti finito per marginalizzare tutte le donne curde. In questo senso, questa cerimonia di nozze estremamente conservatrice si è rivelata essere più un affronto al movimento delle donne curde che una dimostrazione di felice convivenza dei popoli.

Ma è forse sorprendente l’alleanza fra Barzani ed Erdogan? La Turchia non ha alcun un problema con il KRG o con il popolo curdo. La Turchia ha un problema ideologico.

Le parole di Selahattin Demirtas, co-presidente del partito curdo Pace e Democrazia, chiariscono questo punto: “Se avessimo voluto, avremmo potuto già creare dieci Kurdistan. Ma non è importante avere uno stato chiamato Kurdistan, ciò che conta invece è ottenere un Kurdistan con certi principi ed ideali”.

Le linee di comportamento di potenze locali come l’Iran e la Turchia, che storicamente hanno oppresso le popolazioni curde all’interno dei loro stessi confini, dimostrano questa tesi: un Kurdistan che è disposto a collaborare con questi regimi, che mantiene legami economici con questi stati e che è disposto ad emarginare altri partiti curdi radicali per il suo opportunismo può benissimo essere tollerato dalla comunità internazionale. Una struttura come quella del KRG, che è compatibile con il quadro del sistema dominante, può essere accettata, mentre i partiti politici che sfidano il sistema capitalista, statalista, feudale e patriarcale sono ostracizzati. Questa preferenza asimmetrica della comunità internazionale ne evidenzia il volto antidemocratico. E le donne curde vivono tutto questo sul proprio corpo.

Affinché il Kurdistan possa essere una società veramente libera, la liberazione delle donne non deve in nessun caso essere pregiudicata. Criticando il fallimento del KRG rispetto alle questioni di genere, alla libertà di stampa, o altre questioni, non significa “dividere” i curdi. Che tipo di società potrà mai essere quella del Kurdistan meridionale se alla gente viene insegnato a non criticare per paura di perdere ciò che è stato ottenuto attraverso così tante perdite? Non dovrebbero forse le persone essere critiche, anche se questo significa sollevarsi contro il proprio governo? Non è forse questa l’essenza stessa della democrazia? Non lo dobbiamo a tutti coloro che sono morti per costruire una società degna di essere vissuta? Accontentarsi di meno, per il bene dello status quo, significa avere un concetto di libertà davvero astratto. Certo, le donne del Kurdistan, che lottano quotidianamente, meritano di più.

Il nazionalismo, il capitalismo, il dominio dello stato sono stati i pilastri su cui il patriarcato si è appoggiato per riprodursi e questi sistemi di potere hanno spesso utilizzato i corpi e comportamenti delle donne per controllare la società. Il livello standard di libertà a cui ci siamo abituatx è piuttosto basso nel sistema globale capitalistico e statalista in cui viviamo. Per questo, potrebbe sembrare piuttosto seducente rimanere soddisfattx del KRG, dato che è diventato una fortezza della modernità capitalistica – questo nonostante il KRG, nel replicare i difetti e le carenze del resto del mondo, dimostra di avere un senso molto limitato di ciò che significhi libertà.

Pertanto, le donne non dovrebbero aspettarsi che la loro liberazione possa darsi attraverso una struttura egemonica come lo stato. Nel momento in cui si comincia a istituire un concorso di bellezza per eleggere Miss Kurdistan meridionale e a pensare a ciò come un segno di progresso e modernità, allora si finisce per cadere in quegli stessi meccanismi che in primo luogo hanno schiavizzato l’umanità. È questo quello che intendiamo per libertà? Consumismo illimitato? Nazionalismo retrogrado? Vogliamo forse riprodurre dinamiche e meccanismi del patriarcato e del capitalismo globale, etichettandoli poi con bandiere curde per acclamarci moderni?

La libertà non si trova negli alberghi turchi, negli investimenti iraniani, nelle catene alimentarie statunitensi, nei concorsi di bellezza sponsorizzati dagli stranieri o negli abiti tradizionali curdi. La libertà non si detiene una volta che è diventato possibile pronunciare liberamente la parola Kurdistan. La libertà è una lotta senza fine, un processo di costruzione di una società etica ed equa. Il vero lavoro inizia una volta che la “liberazione” sia stata raggiunta. “Azadi” deve essere misurata rispetto al grado di liberazione della donna. A che serve uno stato curdo, se questo perpetua la cultura dello stupro, il femminicidio, e tutte le altri secolari malattie del patriarcato? Gli apologeti dello stupro, i governatori e gli organismi ufficiali curdi che si dimostrano sessisti sono davvero molto diversi dalle strutture statali oppressive, anche se indossano i vestiti tradizionali curdi?

Il “Kurdistan” in sé non è equivale alla libertà. Un Kurdistan patriarcale è un tiranno più insidioso rispetto ai soliti oppressori. Colonizzare e soggiogare metà della propria comunità in un modo sessualizzato può essere un atto molto più vergognoso e violento di un’invasione straniera.

Pertanto, le donne del Kurdistan devono essere le avanguardie di una società libera. Ci vuole coraggio per combattere gli stati oppressivi, ma a volte ci vuole ancora più coraggio di resistere contro la propria comunità. Infatti, non è tanto un governo curdo, fosse anche uno stato curdo, ad essere pericoloso per il sistema dominante. Una minaccia molto più grande alle strutture egemoniche è costituita da una donna curda cosciente e politicamente attiva.

Dilar Dirik

Traduzione nostra da qui