Per quanto sia trascorso oltre un mese dal Newroz, pubblichiamo il report di alcuni compagni e compagne che ha avuto poca circolazione in Italia, ma che dà un’idea tanto della repressione e della resistenza in Bakur quanto delle complicità italiane ed europee con le pratiche genocide dell’AKP.
Consigliamo anche la visione di Cizre Anlatıyor, un video che mostra la devastazione e il genocidio messi in atto a Cizre, con le testimonianze audio di donne e uomini che erano bloccati nei seminterrati e che sono stati, poi, bruciati vivi dalle forze turche.
“Il PKK è il popolo e il popolo è qui!” gridano gli adolescenti di Batman nel Bakur, Kurdistan turco. È il 20 marzo e siamo a Batman in Bakur dove le celebrazioni del Newroz sono state vietate; come in tutte le altre città del paese, ad eccezione di Amed dove si svolgerà la festa istituzionale, il 21. Le strade sono presidiate da decine di mezzi blindati di polizia ed esercito, armati di tutto punto, che, con idranti e armi da fuoco, tengono sotto tiro le persone. Entriamo in città al seguito di Mehmet Ali Aslan, deputato locale del’HDP, e siamo subito accerchiati dai militari. Le persone in piazza cercano di radunarsi per le danze tradizionali, ma anche un semplice ballo è un simbolo di resistenza, e diventa subito un valido pretesto per essere attaccati. Le forze pubbliche schierate disperdono con acqua compressa e lacrimogeni qualunque tentativo di assembramento, ricevendo in cambio fitte sassaiole da parte dei numerosi bambini presenti.
Il momento più teso si raggiunge quando un giovane che camminava isolato viene preso con la forza ed i presenti cercano di liberarlo; nella concitazione uno dei soldati spara una raffica di mitra in aria per disperdere il capannello di solidali radunatisi, ma subito un anziano si scaglia contro i corpi speciali a mani nude senza riuscire a liberare il giovane. A nulla vale l’intervento del deputato e dopo poco, nuovamente attaccati con acqua irritante e gas, siamo costretti a lasciare la piazza; per trovare riparo nella vicina sede dell’HDP da cui per ore assistiamo alle azioni di polizia ed ai rastrellamenti. Mentre ci troviamo sul balcone, la sede stessa è fatta bersaglio di attacchi. Mehmet Ali Aslan si interpone in prima persona, arrampicandosi su un mezzo antisommossa nel tentativo di bloccarlo, ma deve allontanarsi quando viene colpito in faccia dai gas. Dopo un paio d’ore Demirtaş, co-presidente dell’HDP, riesce a tenere un breve comizio dal tetto di un bus. La fine del comizio è sancita dallo scoppio di un temporale e la folla si disperde rapidamente, ciò nonostante i mezzi antisommossa non perdono l’occasione per innaffiare un po’ la folla che si sta disperdendo, come a voler sottolineare il totale arbitrio nella gestione della piazza.
La sensazione che abbiamo tornando a casa è quella di un movimento realmente popolare, che sente proprie sia le posizioni più radicali del PKK che le pratiche di rappresentanza istituzionale dell’HDP. Ne abbiamo la conferma quando, il giorno successivo, partecipiamo ai festeggiamenti ad Amed, balli e canti riempiono la piazza dalla mattina e quando viene acceso il fuoco simbolo del Newroz le persone sono centinaia di migliaia. Il 21 marzo è la festa più importante per il popolo curdo, che lo considera l’inizio dell’anno ma soprattutto simbolo della sua resistenza. Le bandiere sono di tutti i colori, da quelle delle tante associazioni che costituiscono la partecipazione dal basso, caratteristica dell’autonomia democratica, a quelle dei partiti di sinistra, dei gruppi armati e di autodifesa. La folta presenza dei simboli del Rojava e di YPG/YPJ sottolinea la continuità tra il progetto di confederalismo democratico in atto nel nord della Siria dal 2012 e le dichiarazioni di autogoverno proclamate nel Bakur.
Il PKK, all’inizio degli anni 2000, ha cambiato linea politica, costruendo un programma basato su un modello assembleare e di democrazia dal basso, ricostruendo l’immaginario storico e sociale centralizzando il ruolo delle donne, in modo da eliminare ogni influenza patriarcale e gerarchica. In questo contesto trova spazio la formazione di comitati, assemblee e case del popolo, che si fanno carico collettivamente delle istanze dei cittadini. Il Rojava, a partire dalla sua autonomia, nel 2012, segue questo tipo di organizzazione. Nel Bakur la situazione è più complessa, essendo su suolo turco la creazione di organismi di autoroganizzazione si trovano da sempre di fronte alla repressione del sultano Erdogan, che ha reagito alle dichiarazioni di autogoverno attaccando con l’esercito le città, imponendo coprifuochi e facendo centinaia di vittime civili, inclusi vecchi e bambini.
Le celebrazioni del Newroz avrebbero dovuto concludersi il 22 a Cizre, città ridotta in macerie dai bombardamenti e diventata simbolo della resistenza di questi mesi, per questo a volte definita la Kobane turca. Il coprifuoco qui è stato dichiarato a settembre e da quel momento è proseguito con brevi pause fino ad oggi. È storia recente la morte di 62 persone bruciate vive a febbraio in uno scantinato dopo giorni di assedio, e si parla di oltre 340 vittime in città dall’inizio di settembre.
Le celebrazioni qui avrebbero un profondo valore simbolico, e molte persone si riversano in piazza nonostante i divieti ma vengono disperse con la forza, sono le stesse immagini viste a Batman. Le strade dirette a Cizre sono disseminate di check point per impedire di raggiungere la città. Giornalisti e delegazioni internazionali vengono bloccati da una schiera di militari che col mitra in mano, a circa 40 km dalla città. Neanche la presenza di Demirtas riesce a far smobilitare il blocco, davanti al quale le persone scese dalle macchine in fila intonano canti di lotta e balli tradizionali.
Il coprifuoco imposto da mesi nelle città del Bakur sta lasciando una scia di sangue e distruzione. Una guerra non dichiarata che ha già provocato circa 450 morti fra i civili e 350,000 sfollati. In queste ore sappiamo che a Nusaybin, Sirnak e Gever il coprifuoco è imposto anche bombardando con i carri armati, mentre nei quartieri si resiste alle violenze dello Stato con le barricate.
Oltre alla repressione manu militari lo stato turco assume posizioni sempre più autoritarie anche sul piano dei diritti politici, arrestando ed inquisendo decine di giornalisti ed accademici, e chiudendo o commissariando le redazioni dei giornali non allineati.
È sempre più insistente la richiesta di un ulteriore inasprimento della legislazione antiterrorismo che tolga l’immunità ai parlamentari dell’HDP, per poterli accusare di connivenza con il PKK e rendere di fatto illegale il partito.
Questi due aspetti stanno erodendo le speranze di una soluzione pacifica del conflitto nel sud est del paese, che si era intravista nei colloqui aperti da Abdullah Ocalan con il governo tra il 2012-2014. La prima rottura di questo equilibrio si è avuta quest’estate, quando, dopo l’attentato di Suruc, l’aviazione turca, in nome della lotta contro il terrorismo dell’ISIS, ha attaccato chi è da anni in prima linea contro daesh, bombardando le postazioni del PKK nel nord dell’Iraq. Qualunque via negoziale era a questo punto impercorribile e molte città del Bakur hanno dichiarato l’autogoverno: si sarebbero amministrate secondo i principi del confederalismo democratico già sperimentati in Rojava e difese per mezzo delle unità di autodifesa popolari. In tutta risposta lo stato turco ha iniziato le operazioni militari e dichiarato il coprifuoco in molte città, non esitando ad usare artiglieria pesante, bombardando da elicotteri e carri armati e dando il via di fatto alla guerra civile. Una guerra fatta di bambini e anziani uccisi, di morti trainati con le camionette per la città legati per i piedi, schiacciati dai carri armati, di donne uccise lasciate nude in strada, di feriti lasciati in terra morire senza poter ricevere soccorso.
Questa situazione è frutto di scelte politiche chiare, che sicuramente non possono che portare che ad una radicalizzazione del conflitto. Gli stati europei, che raramente risparmiano parole come antifascismo e resistenza, sembrano oggi ciechi, troppo impegnati a trattare con Erdogan perché blocchi il flusso di profughi. Gli stati UE dichiarano la Turchia paese terzo sicuro e consegnano al suo governo 6 miliardi di euro per tenere chiuse le frontiere in uscita, e fingono di non vedere le centinaia di migliaia di sfollati interni, che sono destinati ad aumentare sempre di più, visto che molti di quei soldi serviranno senz’altro a finanziare la guerra contro la popolazione. Le fabbriche di armi del nostro paese non si fanno remore a rifornire il sultano Erdogan; Finmeccanica, attraverso Alenia, partecipa alla fornitura di quegli stessi elicotteri utilizzati per bombardare i civili.
Per riaprire la speranza di una soluzione pacifica sarebbe essenziale che gli stati dell’Unione Europea dessero legittimità politica all’amministrazione federale del Rojava e per un attimo si ricordassero il significato della parola ‘resistenza’ , riconoscendo quindi il PKK come forza popolare, togliendolo dalla black list delle organizzazioni terroristiche.
Delegazione CTK e Carovana Rojava Torino