Il PKK non è un’organizzazione terroristica. Il PKK è la gente!

CU--CBBXAAAgOLCIl PKK non è un’organizzazione terroristica! Lo diciamo anche noi, unendoci alle decine di migliaia di persone che ieri hanno partecipato al funerale di Tahir Elçi, vigliaccamente ucciso in un “attacco pianificato” mentre teneva una conferenza stampa con altri avvocati, a Diyarbakir, per mostrare e denunciare i danni ad uno storico minareto a quattro colonne, pesantemente danneggiato dalle forze governative durante il coprifuoco.

Come spiega il KNK in una sua dichiarazione: “Tahir Elçi era nel mirino del governo dell’AKP e dei poteri dello stato da molto tempo per la sua lotta per i diritti umani, la libertà e la pace. È diventato palesemente un obiettivo dopo aver dichiarato qualche settimana fa, durante un programma televisivo, che il PKK non è un’organizzazione terroristica. Prima è stato arrestato, poi portato in tribunale e condannato a sette anni e mezzo di carcere. Oggi è stato assassinato da coloro i quali hanno ritenuto che questo fosse insufficiente!”.

Una video-analisi della dinamica dell’omicidio di Tahir dice molto di questa vicenda, e vi invitiamo caldamente a guardarla.

Che la sua vita forsse in pericolo, Tahir lo sapeva bene e lo aveva dichiarato in un’intervista.


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L’autogestione nei campi profughi kurdi

Innanzitutto esprimiamo piena solidarietà alle compagne dell’agenzia stampa JINHA, al cui sito web lo stato turco ha deciso di bloccare l’accesso. Un divieto a cui le donne di JINHA hanno risposto: “Quando abbiamo cominciato, quattro anni fa, come prima agenzia di stampa delle donne in Turchia, abbiamo detto ‘scriviamo senza preoccuparci di quello che gli uomini potrebbero dire’. Scriviamo anche senza preoccuparci di ciò che potrebbe dire lo Stato maschilista e continueremo a scrivere la verità”.

Qui, di seguito, la nostra traduzione dell’ultimo articolo di Dilar Dirik, pubblicato su Telesur.

Dimentica le Nazioni Unite! Incontra i rifugiati che in Kurdistan si autodeterminano
di Dilar Dirik (7 ottobre 2015)

Senza entrare nei disumanizzanti e brutali dibattiti che dominano la cosiddetta crisi dei rifugiati, andiamo a vedere una storia diversa di rifugiati. Una storia di autonomia, agentività, autodeterminazione e potenziamneto.
Tre campi profughi in Kurdistan illustrano questa alternativa radicale allo status quo.

Il nostro viaggio comincia a Makhmour, a 40 minuti di strada verso sud dalla capitale kurdo-irachena, Erbil.
Ancora oggi, gli abitanti di questo campo profughi definiscono la propria esistenza “un miracolo”. È stato creato negli anni ’90, dopo che l’esercito turco aveva distrutto i villaggi kurdi, costringendo 100.000 persone a sfuggire ai massacri e all’assimilazione forzata.
Lontano dal sistema statunitense di tifoseria di Erbil, decorato coi cartelloni delle società turche, entrando nel campo di Makhmour, protetto dai guerriglieri e dalle guerrigliere del PKK, si sente un’atmosfera completamente diversa: una vita comunitaria. Continue reading

Contro il colonialismo, contro il suprematismo

Lo stato turco continua la sua opera di distruzione e, dopo i cimiteri dei martiri, ha cominciato a radere al suolo anche le scuole dove si insegna in lingua kurda.

Ma la popolazione kurda non si fa intimorire e, malgrado i massacri e le devastazioni, a Cizre si sono costituite 140 comuni locali per portare avanti l’autogoverno e rispondere alle necessità della popolazione “senza bisogno di alcuna istituzione dello stato”, a partire da istruzione e sanità.

Il Comitato per l’istruzione del KCK (Unione delle comunità del Kurdistan) ha chiamato l’intera popolazione a boicottare le scuole turche, per opporsi al colonialismo e al genocidio culturale – quella “sintesi di politiche e pratiche di assimilazione, genocidio, saccheggio, negazione e annientamento che è iniziata con l’Impero Ottomano e prosegue, oggi, con la repubblica turca”.

E intanto la Federazione democratica europea alevita, in un comunicato, ha invitato tutti e tutte a “stare insieme con una sola voce, un solo cuore e spalla a spalla contro questa persecuzione” e a continuare la resistenza “contro la crudeltà dell’AKP e del Palazzo con lo spirito di Hüseyin, Kobanê, Shengal, Varto e Cizre”.

Sul suprematismo di quelli che noi chiamiamo i ‘turisti delle rivoluzioni’ ha preso parola Dilar Dirik, con un breve ma efficace intervento sulla sua pagina facebook, che molto volentieri abbiamo tradotto e pubblichiamo. Continue reading

Dal genocidio alla resistenza: le donne yezide contrattaccano

A fronte di tutte le menzogne che passano sui media, ancora una volta Dilar Dirik ritrae una realtà che è importante conoscere. Per questo pubblichiamo volentieri questo suo intervento, tradotto a cura nostra da TeleSur.

Dal genocidio alla resistenza: le donne yezide contrattaccano
di Dilar Dirik

Dopo aver subito un genocidio traumatico, le donne yezide sui monti di Sinjar mobilitano la propria autonoma resistenza armata e politica con la filosofia del PKK.

SHENGAL – Il vecchio detto curdo “Non abbiamo amici, se non le montagne” è diventato più importante che mai quando, il 3 agosto 2014, il gruppo omicida Stato Islamico ha lanciato quello che viene indicato come il 73mo massacro di yezidi, attaccando la città di Sinjar (in curdo: Shengal), massacrando migliaia di persone, stuprando e rapendo le donne per venderle come schiave sessuali. Diecimila yezidi e yezide sono fuggiti sui monti di Shengal in una marcia della morte durante la quale sono morti di fame, di sete e di stanchezza – in particolare i bambini. Quest’anno lo stesso giorno, le/gli yezidi hanno marciato di nuovo sui monti di Shengal. Ma questa volta con una marcia di protesta per giurare che nulla sarà mai più di nuovo lo stesso.

L’anno scorso, i peshmerga kurdi iracheni del Partito Democratico del Kurdistan (KDP) hanno promesso al popolo che avrebbero garantito la sicurezza di Shengal, ma sono scappati senza preavviso quando il gruppo Stato Islamico ha attaccato, senza nemmeno lasciare armi alla gente per difendersi. Invece, sono state la guerriglia del PKK, così come le Unità di difesa del popolo, o YPG, e le loro brigate femminili, le YPJ, venute dal Rojava che, nonostante avessero i kalashnikov e soltanto una manciata di combattenti, hanno aperto un corridoio per il Rojava, salvando 10mila persone.

Per un anno intero, le donne yezide sono state descritte dai media come inermi vittime di stupro. Innumerevoli interviste chiedevano loro ripetutamente quanto spesso fossero state stuprate e vendute, facendo rivivere spietatamente il trauma per amore delle notizie sensazionalistiche. Le yezide sono state presentate come l’incarnazione della donna che piange, che si arrende passivamente, la vittima finale del gruppo Stato Islamico, la bandiera bianca femminile per il patriarcato. Inoltre, le più selvagge rappresentazioni orientalistiche hanno grottescamente ridotto una delle più antiche religioni al mondo sopravvissute ad un nuovo campo esotico ancora da esplorare. Continue reading

“Le più antiche ed esperte avversarie dello Stato islamico”

A quasi un anno dalla sua pubblicazione, ci sembra importante proporre la traduzione di questo intervento di Dilar Dirik, che rende ancora più evidenti le complicità, le omertà e gli interessi che hanno determinato l’attuale situazione in Kurdistan.

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Gli ‘altri’ kurdi che combattono lo Stato islamico
Perché i kurdi, che hanno mostrato la resistenza più efficace contro lo Stato islamico, sono etichettati come terroristi?

di Dilar Dirk, 2 settembre 2014

Rojbas! “Buon giorno” al mondo, che per aprire gli occhi di fronte alla realtà massacratrice chiamata “gruppo dello Stato Islamico” ha aspettato che i kurdi yezidi a Sinjar (Shengal) si trovassero di fronte al 73mo massacro nella loro storia!

Lo Stato islamico sta massacrando in Siria da quasi due anni, senza sdegno né azioni globali. Infatti è stato anche sostenuto da diversi governi nel tentativo entusiasta di rovesciare Bashar al-Assad a qualunque costo.

Dopo un feroce attacco su Sinjar in agosto, nel corso del quale migliaia di kurdi yezidi sono stati uccisi, centinaia di donne sono state violentate, rapite e vendute come schiave sessuali, e decine di migliaia sono rimasti bloccati sui monti di Sinjar, senza cibo né acqua, i governi occidentali ora forniscono le armi alle forze peshmerga del Governo regionale del Kurdistan (KRG) nel sud del Kurdistan (Nord Iraq).

Questo non sorprende, dato che il KRG – che è controllato dal governo del Partito democratico del Kurdistan (KDP) – è un partner importante dell’Occidente e della Turchia. Continue reading

La rivoluzione delle donne in Rojava. Sconfiggere il fascismo costruendo una società alternativa

Dal sito di Nicoletta Poidimani riprendiamo la traduzione di un intervento di Dilar Dirik che ci risuona profondamente.

La rivoluzione delle donne in Rojava. Sconfiggere il fascismo costruendo una società alternativa
di Dilar Dirik

Questo brano è un capitolo del libro di Strangers in a Tangled Wilderness (a cura di), A Small Key Can Open A Large Door: The Rojava Revolution, 2015, Combustion Books.

La resistenza a Kobanê contro lo Stato islamico ha aperto gli occhi al mondo sulla causa delle donne kurde. Com’è tipico della miopia dei media, anziché considerare le implicazioni radicali delle donne che prendono le armi in una società patriarcale – soprattutto contro un gruppo che sistematicamente stupra e vende le donne come schiave sessuali – anche le riviste di moda oggi si appropriano della lotta delle donne kurde per i loro scopi sensazionalistici. I reporters spesso scelgono le combattenti più “attraenti” per le interviste e le esotizzano come amazzoni “cazzute”. La verità è che la mia generazione è cresciuta considerando le donne combattenti come un elemento naturale della nostra identità; non importa quanto sia affascinante – da un punto di vista orientalista – scoprire una rivoluzione delle donne tra i kurdi.
Le Unità di difesa popolare (YPG) e le Unità di difesa delle donne (YPJ) del Rojava (regioni nel nord della Siria a popolazione prevalentemente kurda) stanno combattendo il cosiddetto Stato islamico da due anni e attualmente conducono una resistenza epica nella città di Kobanê. Si stima che il 35% – circa 15.000 combattenti – sono donne. Fondate nel 2013 come esercito autonomo delle donne, le YPJ portano avanti operazioni e corsi di formazione indipendenti. Ci sono diverse centinaia di battaglioni di donne in tutto il Rojava.

Ma quali sono le motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobanê non è caduta? La risposta è che una rivoluzione sociale radicale accompagna i loro fucili di autodifesa… Continue reading

L’autodifesa radicale delle donne kurde: armata e politica

ypj3_dilardirik.jpg_1703677632La resistenza delle donne curde opera senza gerarchia né dominazione ed è parte della più ampia trasformazione e liberazione della società.
Le potenti istituzioni del mondo operano attraverso la struttura-Stato, che ha il monopolio finale sul processo decisionale, sull’economia, e sull’uso della forza. Al tempo stesso ci viene detto che l’odierna violenza diffusa è la ragione per cui lo Stato ha bisogno di proteggerci contro noi stessi/e. Le comunità che decidono di difendersi contro l’ingiustizia sono criminalizzate. Basta dare uno sguardo alla generica definizione di terrorismo: l’uso della forza da parte di attori non statali per scopi politici. Non importa il terrorismo di Stato. Di conseguenza, le donne, la società e la natura vengono lasciate indifese, non solo fisicamente, ma socialmente, economicamente e politicamente.
Nel frattempo, gli onnipresenti apparati di sicurezza dello Stato – che apertamente portano avanti economie di commercio di armi e traggono benefici dal contrapporre le comunità l’una contro l’altra per le loro sporche guerre – danno l’illusione di proteggere “noi” contro un misterioso “loro”.

Nel corso dell’ultimo anno, il mondo è stato testimone della storica resistenza della città curda chiamata Kobane. Che le donne da una comunità dimenticata siano diventate le più feroci nemiche del gruppo Stato Islamico – la cui ideologia si basa sulla distruzione di tutte le culture, le comunità, le lingue e i colori del Medio Oriente – ha sconvolto i patti convenzionali sull’uso della forza e sulla guerra. Kobane non passerà alla storia della resistenza umana perché gli uomini hanno protetto le donne o uno Stato ha protetto i suoi “soggetti”, ma perché donne e uomini sorridenti hanno trasformato le loro idee e i loro corpi in un’ideologica prima linea contro la quale si sono sgretolati il gruppo Stato Islamico e la sua stupratrice visione del mondo.
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