La resistenza delle donne curde opera senza gerarchia né dominazione ed è parte della più ampia trasformazione e liberazione della società.
Le potenti istituzioni del mondo operano attraverso la struttura-Stato, che ha il monopolio finale sul processo decisionale, sull’economia, e sull’uso della forza. Al tempo stesso ci viene detto che l’odierna violenza diffusa è la ragione per cui lo Stato ha bisogno di proteggerci contro noi stessi/e. Le comunità che decidono di difendersi contro l’ingiustizia sono criminalizzate. Basta dare uno sguardo alla generica definizione di terrorismo: l’uso della forza da parte di attori non statali per scopi politici. Non importa il terrorismo di Stato. Di conseguenza, le donne, la società e la natura vengono lasciate indifese, non solo fisicamente, ma socialmente, economicamente e politicamente.
Nel frattempo, gli onnipresenti apparati di sicurezza dello Stato – che apertamente portano avanti economie di commercio di armi e traggono benefici dal contrapporre le comunità l’una contro l’altra per le loro sporche guerre – danno l’illusione di proteggere “noi” contro un misterioso “loro”.
Nel corso dell’ultimo anno, il mondo è stato testimone della storica resistenza della città curda chiamata Kobane. Che le donne da una comunità dimenticata siano diventate le più feroci nemiche del gruppo Stato Islamico – la cui ideologia si basa sulla distruzione di tutte le culture, le comunità, le lingue e i colori del Medio Oriente – ha sconvolto i patti convenzionali sull’uso della forza e sulla guerra. Kobane non passerà alla storia della resistenza umana perché gli uomini hanno protetto le donne o uno Stato ha protetto i suoi “soggetti”, ma perché donne e uomini sorridenti hanno trasformato le loro idee e i loro corpi in un’ideologica prima linea contro la quale si sono sgretolati il gruppo Stato Islamico e la sua stupratrice visione del mondo.
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